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  • Pizza, Brexit e mandolino, com’è la vita professionale di un italiano a Londra

    Il viaggio del Regno Unito verso l'uscita dall'Europa vissuto da un emigrante Italiano

    18 Aprile 2019

    Cinque anni. Sono esattamente quelli passati (proprio questa settimana) da quando con tre valige, due lauree – una triennale in Economia ed un MSc in Business Administration – e un biglietto di sola andata ho lasciato la Città Eterna per scrivere un nuovo capitolo della mia vita nello Square Mile. Era l’Aprile del 2014. Esattamente un anno dopo, 2015, sono entrato a far parte di una delle aziende più importanti della City Londinese, iniziando come Analista, dedicandomi alla finanza e all’economia ogni giorno. Di quell’anno ricordo l’ennesima crisi Greca, la sterlina a 1.44 contro l’Euro e una parola che iniziava ad essere sulla bocca di tutti, alla quale nessuno dava alcun peso, perché a tutti sembrava semplice farneticazione: la Brexit. Nei mesi a seguire, nessuno avrebbe scommesso un Euro (o una Sterlina) che quest’idea sarebbe potuta diventare realtà, considerando tutte le implicazioni e ricadute sull’economia e sulla popolazione del Regno Unito. Negli ultimi giorni prima del referendum, tuttavia, il sentimento comune si era mosso verso una concreta paura che il popolo inglese potesse realmente vagliare quello che, in molti, vedevamo come un suicidio politico ma soprattutto economico. LEGGI ANCHE: Brexit e startup, che succede adesso?

    Brexit e startup
    Brexit e startup

    I diversi punti di vista di aree metropolitane e periferie

    Ho avuto modo di incontrare diverse persone e confrontarmi con loro per comprendere meglio la Brexit da diversi punti di vista che, giusti o sbagliati che possano essere considerati, in un mondo democratico meritano tutti di essere ascoltati. Da italiano ormai in pianta stabile a Londra, dove ho ricostruito la mia quotidianità, la mia vita professionale e personale, non ho accolto la Brexit con positività. Allo stesso tempo, sono in molti nella mia situazione in una città come Londra, per cui le sensazioni ed i pensieri captati negli ultimi tre anni sono comunque influenzati dall’ecosistema che mi circonda. I dati post-votazione stessi mostrano come ci sia stata una chiara distinzione tra l’area di Londra (e Scozia) che chiaramente optava per rimanere nell’Unione ed il resto del Regno Unito, che supportava fortemente l’uscita.   Per questo, credo non si possa capire il risultato della Brexit se sì e vissuto e visto solo Londra. Dopo essermi trasferito nel Regno Unito, per più di un anno non ho mai lasciato The Big Smoke. Il mio primo viaggio fu per visitare Liverpool e ricordo quanto fui sorpreso di scoprire un ambiente molto rurale e decisamente “più inglese” di quello a cui ero abituato. Londra, invece, e un “paese” a sé. Il Regno Unito è, semplicemente, qualcosa di diverso. Nel momento in cui si capisce tale differenza, si comprende come la Brexit ce l’abbia fatta contro tutte le aspettative. LEGGI ANCHE: Se gli inglesi votano Brexit e, tornati a casa, chiedono a Google cosa sia

    Vite, storie e amori ai tempi della Brexit

    Come in tutte le comunità poliglotte, si creano relazioni tra locali e stranieri. È quindi e normale per me frequentare ambienti dove uno dei due partner è inglese e l’altra di un paese Europeo. Interessante è stato vedere come quasi nell’80% di queste coppie la parte inglese era “PRO Remain”, essendo coinvolta personalmente nei potenziali effetti collaterali della Brexit. Gli unici argomenti a favore del “Leave”, da loro lato, riguardavano il processo governativo decisionale che toglieva controllo alla nazione e le contribuzioni economiche ingiustificate del Regno Unito alla comunità. C’erano poi le fazioni degli emigranti, come me, che per ovvie ragioni non vedevano alcun benefit o ragione per la Brexit. Tuttavia, la maggior parte di quest’universo non avrebbe potuto votare per il referendum. Infine, c’erano quelli che vedevamo in TV, che ascoltavamo di nascosto al pub, che non ce lo avrebbero mai detto in faccia ma che riversano qualsiasi frustrazione sulla popolazione immigrante.

    La decisione senza pensare alle conseguenze

    Questo tipo di frustrazione esiste, soprattutto negli ultimi anni, in praticamente ogni paese dell’ovest sviluppato: dal Travel-Ban di Trump in US, all’Italexit passando per una vittoria sfiorata dall’estremista Marie Le Pen in Francia. Aggiungendo a queste tendenze un genio della strategia politica come Dominic Cummings capiamo come si è giunti ti al fatidico verdetto.
    Conference of European right-wing parties on January 21 in Koblenz, Germany.

    Ok, ma alla fine, cosa è realmente cambiato?

    Dal punto di vista personale sostanzialmente nulla. Tutto scorre come al solito e aldilà di una manifestazione qui e una news li, la vita scorre in quel di Londra. Tuttavia, non si può nascondere che dal punto di vista pratico alcuni cambiamenti ci sono stati, eccome. Primo fra tutti, il nuovo “Settlement Scheme” il quale obbliga i cittadini Europei a registrarsi per assicurarsi il diritto a rimanere in UK una volta che la Brexit sarà completata. Il processo è in realtà molto semplice e si svolge per lo più attraverso un’App sul proprio smartphone. Una volta effettuata la registrazione, colore che hanno vissuto per almeno cinque anni nel Regno Unito possono ottenere il “Settled Status” il quale implica il diritto a rimanere e lavorare dopo l’uscita. Da qui, si deve attendere un anno per poi applicare di nuovo ed ottenere cittadinanza e passaporto inglese. LEGGI ANCHE: Oltre la Brexit, la disuguaglianza nel Regno Unito

    La delocalizzazione “facoltativa”

    Molte aziende, soprattutto nell’industria finanziaria, hanno preso al balzo la palla del Brexit per tagliare sul personale o offrire delocalizzazione “facoltativa”: cambiare paese o cambiare compagnia. Diversi tra amici e conoscenti sono stati messi davanti a questa scelta quasi immediatamente dopo il voto. Dalle banche che hanno delocalizzato gran parte del personale, creando veri e propri centri in altre città dove il costo della vita (e del lavoro) è decisamente più basso, come Goldman Sachs a Varsavia, ad altre che invece hanno deciso di fare leva su centri più affermati come Parigi, Amsterdam e soprattutto Francoforte. Insomma, un giro di vite che ha già impattato la City Londinese.

    Le aziende e l’economia dopo il voto

    Ovviamente, se pensiamo che quest’universo, oltre ad essere ampio, includa i più facoltosi, possiamo evincere che come effetto collaterale ci sia un impatto economico non indifferente. A questo dobbiamo aggiungere che, lasciando l’Unione, il Regno Unito è di conseguenza costretto a rinegoziare tutti gli accordi commerciali con i diversi paesi, tasse doganali, limiti e molto altro. Diversamente da paesi del sud Europa, il Regno Unito non è famoso per le proprie risorse naturali, piuttosto, per i suoi servizi: infatti l’80% del PIL è prodotto dal settore sei servizi, di cui quelli finanziari sono i contributori maggiori. A tre anni dal voto, i dati parlano chiaro e quest’articolo del Financial Times di Ottobre, ci fornisce un quadro chiaro della situazione, che io stesso da cittadino vivo sulla mia pelle. Il crollo della Sterlina contro l’Euro ed i salari che, viste le scarse prospettive di crescita nel breve periodo delle imprese, crescono flebilmente nel valore nominale e decrescono nel loro valore reale a causa di un’inflazione galoppante. Questa più che eccede il target de 2% fissato dalla Banca d’Inghilterra. Le aziende stesse, dato l’alto livello d’incertezza, hanno rallentato esponenzialmente gli investimenti i quali sono cresciuti solo del 2% dal voto e sono infatti 0.2% più bassi nel 2018 rispetto l’anno precedente. Se si pensa che prima del referendum, la Banca d’Inghilterra avesse stimato una crescita degli investimenti del 13% nei due anni seguenti il 2016. Infine, il mercato stesso ci dà segnali negativi, dato che per definizione riflette un visione del potenziale economico del paese. Se guardiamo al FTSE250, composto da compagnie che collettivamente generano la maggior parte del proprio profitto in UK, vediamo che questo è diminuito del 0.3% dal voto del 2016 – contro i maggiori indici dei paesi sviluppati che sono cresciuti del 26%. Infine, paradossalmente, tutto questo culmina in una scarsità di skill lavorative. Una ricerca ha riportato che il 90% degli imprenditori ha difficoltà a trovare lo staff di cui necessita, e due terzi credono che lo skills-gap peggiorerà dopo la Brexit. Il settore delle costruzioni ha risentito maggiormente del contraccolpo e non prospetta miglioramenti anche a causa del potenziale stop al movimento libero di persone.

    Chi rimarrà, vedrà

    Oggi viviamo una situazione di stallo politico tra il governo inglese, Theresa May e l’Europa. Notizia recente è che al Regno Unito è stata concessa una proroga fino al 31 Ottobre 2019, data l’impossibilità di trovare un accordo che raggiungesse una maggioranza nel parlamento inglese. Ci sono diverse opzioni sul tavolo, tra cui quella di un nuovo referendum che dia l’opportunità al popolo inglese di votare di nuovo e tornare sui propri passi –  una recente petizione ha superato 5.7 Milioni di firme d’adesione. Insomma, il clima è d’incertezza, molte cose non sono chiare a entrambe le parti, alla popolazione, soprattutto quella emigrante e tutti sperano in una risoluzione il prima possibile. Ed io, speriamo me la cavo.

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