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  • Ipercontenuti e mondi narrativi. Perché non possiamo trascurare lo Storytelling Corporate e di Brand

    2 Settembre 2016

    “Apri la mente o qualcuno potrebbe aprirtela” Walter Bishop, Fringe

      Contenuti ovunque. Siamo circondati, invasi da temi e argomenti di tutti i tipi, declinati in tutte le forme possibili: cartacee, digitali, visive, filmiche, sonore… e chi più ne ha più ne metta. Quasi una indigestione di testimonianze, cronache, biografie individuali, sociali e aziendali.   Non ci possiamo fare nulla. Il racconto è diventato il format con cui progettare conoscenze e socializzare notizie, informazioni, competenze, abilità, esperienze. È una vera e propria meta-piattaforma di comunicazione e condivisione di vita. Basta pensare alla recente funzione “Story” inserita in Instagram. Ci sono tante ragioni storiche, politiche, sociali, economiche, per cui tutto questo è successo e non è qui il caso di approfondirle. Ma rimando al bellissimo saggio di Byung-Chul Han: Psicopolitica, che apre squarci di comprensione. Quello che però mi interessa sottolineare è che se siamo all’interno di una dimensione di questo tipo, non possiamo non saper usare lo Storytelling e la narrazione d’impresa. Non possiamo dirci ignoranti rispetto a un set di competenze sempre più articolato e complesso da conoscere e saper usare. Infatti, usare il racconto e fare comunicazione o marketing con lo Storytelling – soprattutto in ambito aziendale e corporate – implica possedere specifiche conoscenze, coltivare competenze ad hoc e avere responsabilità non marginali. Altrimenti si sarà condannati a fare storie, certo, ma inutili, noiose, poco emozionali e senza significato profondo. Anzi diciamolo pure, non saranno “storie” e racconti “significanti” ma semplici contenuti sfittici, privi di pregnanza biografica e psicologica. Saranno ipocontenuti. Allora vediamo perché non possiamo trascurare lo Storytelling aziendale e individuale.
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    1. Perché ciò che importa è l’ipercontenuto: temi, forme e lettori.

    Lo abbiamo detto prima: contenuti e racconti ovunque. Individui e organizzazioni oggi competono narrativamente. Ma non tutti i contenuti sono di qualità e non tutti i racconti sono interessanti e “usabili”. Tuttavia, non possiamo fare Storytelling se non sappiamo la forma che il racconto prenderà in termini aziendali e/o organizzativi. Non c’è storia che non si incarni, non diventi oggetto e fruizione attraverso uno specifico device. Per questo come recentemente è stato fatto notare da alcuni è necessario passare a una logica di contenuto a una logica di gestione di HyperContents. A. Maestri e F. Gavatorta hanno definito gli ipercontenuti come:
    tutti quei contenuti che non rientrano in una determinata forma definita e “preconfezionata” […] ma che trovano piuttosto senso e compimento anche nella relazione che si instaura con lo spazio e il tempo circostante, ovvero con il contesto esperienziale hoc et nunc in cui l’utente è calato (A. Maestri, F. Gavatorta, Content Evolution. La nuova era del marketing digitale, Franco Angeli)
    Ritengo tale definizioni un inizio interessante ma ancora parziale di quello che è la reale portata della governance degli ipercontenuti che le organizzazioni dovranno agire. Dal mio punto di vista un ipercontenuto è:
    un’unita narrativa (un grande tema o una serie di argomenti / simboli) che trova compimento nell’esperienza di un lettore che, attraverso uno o più device, genera un significato condiviso – di contenuto e forma – con l’autore di quella stessa unità di conoscenza.
    In altre parole, una organizzazione per fare Storytelling in modo mirato dovrà considerare:
    • La contingenza del racconto (quale contesto e tempo),
    • Gli strumenti del racconto (o il set di device in uso),
    • il lettore (che ha un suo copione psicologico) e una certa user experience di fruizione dei racconti, oltre che certi interessi specifici 
    • l’autore del racconto stesso, che ha una serie di obiettivi e di interessi altrettanto specifici (ma che possono essere anche diversi da quelli dei suoi lettori).
    • specifici story-gate: momenti soglia in cui lettore e autore si incontrano in uno spazio –tempo narrativo predefinito: in uno store, in un museo, in un sito di e-commerce, etc.
    Lo Storytelling è sempre una relazione tra un autore capace di creare narrazioni e un lettore che attivamente o passivamente ne fruisce. Senza autore e senza lettore non siamo all’interno di una attività di Corporate Storytelling che è sempre bidirezionale.
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    2. Perché lo Storytelling è un trend… E perché lo Storytelling non è un trend

    Tutti si raccontano. E lo Storytelling è diventato di moda. Così di moda da essere strapazzato e abusato nel suo uso. Ma fare Storytelling perché è di moda è un fatal error. È innegabile che sia una tendenza. Può essere più o meno cool dire che si fa Storytelling. Ma nello stesso tempo in cui lo si dice, bisogna anche saperlo progettare e declinare. Siamo destinati a vivere in una dimensione di immaginazione accellerata e di ipercontenuti che si declinano in forme narrative diversificate (sempre più transmediali) per cui lo Storytelling da moda del momento, passeggera, diventa competenza professionale da conoscere, studiare, praticare, evolvere oltre che naturalmente processo da saper implementare per il raggiungimento di risultati specifici. Vedi le esperienze di narrazione transmediale aumentata come The Walking Dead. corso storytelling Adobe Stock #83810356

    3. Perché lo Storytelling è metodo… ma volendo può andare oltre un metodo

    Per fare Storytelling è necessario avere la conoscenza di specifici approcci disciplinari con ben delineate metodologie. Tuttavia, nel mondo aziendale le cose cambiano con rapidità giornaliera, ciò che era stato deciso questa mattina è già cambiato adesso. L’approccio narrativo consente una adattabilità importante che se consente in extrema ratio di mandare all’aria tutti i piani e ricominciare con una nuova progettazione narrativa, accelerando la possibilità di ottimizzare i risultati delle campagne di comunicazione e marketing.

    4. Perché siamo circondati da tanto buon Storytelling… E perché siamo circondati da tanto pessimo Storytelling

    Dobbiamo saper distinguere. Ci sono narrazioni buone ed esistono narrazioni pessime. Chi fa Storytelling deve possedere cartine di tornasole, item di valutazione che consentano di distinguere un racconto efficace e di qualità da un racconto mediocre e inutile. Come distinguere un buon racconto da un racconto pessimo: non solo con i like.

    Piuttosto serve capire se il racconto è:

    • adatto al pubblico specifico (in linea con la sua storia di vita)
    • qualitativamente coerente (con temi importanti e significativi – “scritti bene!”)
    • visivamente rappresentativo (all’altezza dei parametri estetici oggi necessari)
    • vicino all’immaginario di marca e di pubblico (quanto il racconto connette i diversi immaginari di consumo)
    • pianificato in modo efficace rispetto a tempi e media
    • mediaticamente fruibile (non tutti i racconti si adattano su tutti i media)
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    5. Perché lo Storytelling crea mondi… E perché lo Storytelling distrugge mondi

    Fare Storytelling in azienda implica responsabilità. Si lavora con le identità, con le relazioni e con l’immaginazione creativa di individui, gruppi, organizzazioni. Quando si opera con questi “elementi chimici” della vita d’impresa bisogna capire che si sta “giocando col fuoco”. Occorrono risorse: umane, temporali, economiche e sociali per poterlo fare. Basti pensare a quanta complessità gestionale può implicare costruire piattaforme ed esperienza come quella del Coca Cola Journey Italia

    Costruire una narrazione aziendale e/o istituzionale può voler dire aumentare l’engagement e la reputazione di una marca o di un prodotto, evolvere gruppi di lavoro, ottimizzare il lancio di prodotti/servizi, aiutare le marche a posizionarsi meglio (in nuovi o vecchi mercati) e molte altre cose. Ma se non si fa bene, il pericolo è che tutto il “ponte narrativo costruito crolli, con risultati pessimi per reputazione, identità e relazioni. Anche se il contenuto del racconto era ottimo.

    6. Perché non dobbiamo per forza fare Storytelling… ma nello stesso tempo non possiamo non essere Storyteller

    Chi vi ha detto che dovete fare Storytelling?

    Certo, ogni professional o manager oggi deve conoscere le tecniche narrative, avere storytelling skillls, lo abbiamo sottolineato più volte. Ma non per questo ogni professional o manager deve sempre e per forza fare Storytelling o deve sempre narrarsi. Basta con il banale pensiero che è sufficiente fare una foto e metterla on line per aver fatto narrazione e che per questo bisogna farla!

    Ci sono condizioni che ci permettono di raccontare e raccontarci e altre no. Senza queste condizioni l’esito di un’operazione di narrazione d’impresa può fallire diventando controproducente.

    Queste condizioni sono:

    • professionalità con competenze per farlo: queste possono essere formate in azienda o possono essere prese come consulenze specifiche sul mercato;
    • organizzazione: per fare narrazione bisogna organizzarsi in gruppi interni ed esterni. Bisogna ascoltare e leggere i pubblici, bisogna costruire racconti significativi, bisogna adattare questi racconti ai media, bisogna avere un audiance con cui si dialoga, etc… insomma ci vogliono team di lavoro organizzati ad hoc
    • avere una ownership manageriale: l’azienda o l’istituzione che sceglie di fare storytelling deve essere consapevole che raccontandosi mette in luce nuove forme della sua identità e genera nuove dinamiche di relazioni con i suoi pubblici. Se non c’è questa volontà di espressione e di posizionamento responsabile è impossibile fare narrazione. E poi bisogna sempre essere pronti a rispondere alla domanda: “di chi è il racconto?”
    • E infine ci vuole una destinazione: bisogna rammentarsi sempre che ci raccontiamo perché vogliamo creare un destino comune tra noi e i nostri pubblici referenti (dipendenti, clienti, consumatori, stakeholders, etc): se vogliamo emozionare in modo autobiografico e vogliamo dare un orientamento significativo (creando nuovo sense-making) a un pubblico o a un insieme diversificato di audiance dobbiamo sapere dove stiamo andando e perché.

    Anche se non ci costringe nessuno al racconto, c’è un “ma” sostanziale che ci attende alla fine di queste condizioni imprescindibili per poter fare narrazione. Ognuno di noi infatti è, oggi, volendo o meno, uno Storyteller – cioè un portatore intrinseco di racconti più o meno accattivanti che potenzialmente possono essere e diventare costruttori di capitale: sociale, politico economico e naturalmente narrativo.

    andrea fontana

    Questo guest post è stato scritto da Andrea Fontana, Founder & CEO Storyfactorydocente del Corso Online in Corporate Storytelling.