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  • Great Resignation: l’identikit degli italiani che lasciano il lavoro

    Il “lavoro duro” e la carriera a tutti i costi non sono più credibili

    10 Maggio 2022

    • La “Grande Rassegnazione” lancia i segnali per il futuro del lavoro
    • La qualità della vita lavorativa è il nuovo mantra per il mondo aziendale
    • Nuove Generazioni e Adulti insieme possono innescare la nuova rivoluzione del lavoro
    Il sistema valoriale che per anni ha guidato le scelte lavorative di Baby Boomers e Generazione X è entrato in crisi a partire da un nuovo paradigma che mette al primo posto la salvaguardia della qualità della vita.  Come sono gli italiani che lasciano il lavoro? L’aspetto economico, in Italia comunque ancora centrale, inizia ad essere subordinato alla salute psico-fisica, soprattutto dalle Nuove Generazioni. Una volta “il posto fisso e la carriera a tutti i costi” erano ambizioni che per decenni hanno condizionato le scelte di intere generazioni. Ma qualcosa è cambiato: l’impianto del lavoro tradizionale fortemente gerarchizzato e basato su performance e produttività ha iniziato a scricchiolare e oggi, dopo due anni di pandemia, è in atto una trasformazione che lo scrolla sensibilmente. A preoccupare non sono le “Grandi Dimissioni”, che nel nostro Paese non si sono rivelate così significative, quanto i segnali sottesi che raccontano una rivoluzione dei principi che regolano i rapporti lavorativi.

    Grandi Dimissioni o Grandi Omissioni?

    Il fenomeno denominato “Big Quit” o “Great Resignation” è nato Oltreoceano come un’ondata senza precedenti storici di lavoratori dimissionari. Dopo i cataclismi economici del 2020, alcuni economisti statunitensi, analizzando la fase della ripresa, si sono accorti dell’aumento del numero di dipendenti che si dimettevano spontanemente. Nel 2021, negli Stati Uniti, quattro americani su dieci hanno deciso di cambiare lavoro, di abbandonare la propria carriera o di avviare un’attività autonoma lasciando il posto di lavoro in cui avevano vissuto gran parte della loro vita, facendo diventare questo comportamento una sorta di fenomeno di massa. Un discorso che, insieme alle tendenze economiche, sociali, tecnologiche, si è allargato: in Australia un lavoratore su due pensava di lasciare il lavoro; in Cina i giovani hanno iniziato a rifiutare di lavorare perché si sentivano solo un ingranaggio del sistema. LEGGI ANCHE: Lasciare il lavoro è virale: la Gen Z festeggia il licenziamento sui social

    Le Grandi Dimissioni in Italia: come sono gli italiani che lasciano il lavoro

    Con una portata più ridotta, il fenomeno sembra sia stato avvertito anche in Italia: nel secondo trimestre del 2021 il boom è stato dell’85%, mentre nel terzo la media è stata del 26,7%. Alcuni hanno letto questi numeri come una risposta ai mesi di pandemia, altri invece hanno teorizzato un mutamento sostanziale e ormai inarrestabile dei paradigmi lavorativi. Il fenomeno delle “grandi dimissioni” in Italia si è affermato nel corso del 2021 con un tasso di dimissioni (il numero di dimessi sul totale dei lavoratori dipendenti) che ha superato il 3% nel quarto trimestre dell’anno passato (un numero mai visto nell’ultimo decennio). Questi numeri sembravano indicare un fenomeno simile a quello americano anche perché l’autunno del 2021 ha comportato un aumento del numero di lavoratori dimissionari che ha superato il mezzo milione di persone. Un primo “disclaimer” da tenere in considerazione è che si è trattato in proporzione di numeri molto più piccoli rispetto agli USA. Al di là dell’Atlantico, ogni mese si dimetteva il 3% dei lavoratori, mentre in Italia il 2-3% ogni 3 mesi: la “velocità” era di un terzo in meno. Se è vero che il fenomeno in Italia ha avuto proporzioni molto più contenute rispetto alla “versione originale” statunitense (circa un terzo), allo stesso tempo, esiste ancora una tendenza nel nostro Paese e ci si è interrogati lungamente, e ci si continua ad interrogare, sulle sue cause.

    Che succede se tutti lasciano il lavoro

    Per un’economia, se tante persone si dimettono non si tratta di una tendenza necessariamente negativa: alcuni ricercatori della Banca d’Italia avevano considerato questo fenomeno come “normale” all’interno di una fase di ripresa e ri-equilibratura economica dopo la forte contrazione dovuta alla pandemia. I lavoratori che decidono di trovare nuovo lavoro possono essere addirittura un segnale di vitalità di un mercato: l’assunto è che chi cambia, lo fa per condizioni migliori (la cosiddetta job-to-job transition), per cercare un posto di lavoro migliore e, a livello macroeconomico complessivo, si riflette in lavoratori che possono anche generare una produttività migliore se si trovano a loro agio nei nuovi contesti. grandi dimissioni great resignation 02 Francesco Armillei, ricercatore della London School of Economics e di Tortuga, ha compiuto delle rilevazioni molto significative per descrivere il fenomeno e ha contribuito a smentire e ridimensionare alcuni aspetti dell’“identikit” di questa popolazione dimissionaria: si è trattato per la maggior parte di uomini (tre quarti delle dimissioni in più); non erano in prevalenza giovani (c’è stato un aumento dimissioni sotto i 30 anni, ma l’aumento più importante rilevato è quello sopra i 50 anni, spesso accompagnato ad un discorso di uscita dal mercato del lavoro o di avvio verso un percorso alternativo pre-pensionistico); l’aumento delle dimissioni era pressappoco identico tra titoli di studio, configurandosi come un fenomeno trasversale e molto sfumato nelle interpretazioni. Una particolarità tutta italiana è stata rappresentata del settore delle costruzioni, “drogato” dagli incentivi introdotti recentemente e che hanno alterato non poco le misurazioni. Le interpretazioni dei dati hanno anche provato ad indagare quanto, tra le possibili cause, ci fosse un fenomeno di “dimissioni rimandate” poiché bloccate dal lockdown sanitario e dall’impasse economica, ma i settori (o professioni, gruppi d’età, e di anzianità di servizio) che hanno visto calare maggiormente le loro dimissioni nel 2020, sono gli stessi in cui le dimissioni sono rimaste a livelli relativamente inferiori anche nel 2021, non facendo emergere nessun “rimbalzo” da dimissioni rimandate. Un’altra ipotesi approfondita è quella della “paura o stress del lavoro da remoto” ma la variazione del numero di dimissioni a livello di professione sembra non seguire a livello macroscopico nessuno degli indici utilizzati per il remote working.

    Il pragmatismo vince sulla Great Resignation

    Anche il CENSIS ha sancito ad inizio anno che “il pragmatismo ha vinto sulla tentazione da Great Resignation” (cioè dimissioni al buio per cercare un impiego più gratificante), poiché dai dati è emerso che continua a fare troppa paura ritrovarsi nella precarietà del mercato del lavoro. Nonostante questo, l’82,3% dei lavoratori (l’86,0% tra i giovani, l’88,8% tra gli operai) si dice insoddisfatto della propria occupazione e ritiene di meritare di più. Le cause di questa insoddisfazione annoverate sono tendenzialmente i livelli retributivi inadeguati (che non crescono rispetto al resto d’Europa da troppo tempo), lo stress aggiuntivo sul lavoro accumulato con il lavoro da remoto e le situazioni d’urgenza o la richiesta (da parte dell’86,5% dei lavoratori) di maggiori servizi di welfare aziendale per rispondere ai bisogni sociali quali la non autosufficienza di un familiare, la previdenza o l’istruzione dei figli. Forse allora non dovremmo tradurre malamente “Great Resignation” con “Grandi Dimissioni”, semmai letteralmente con “Grande Rassegnazione”. Una rassegnazione dal rapporto lavorativo che negli anni di pandemia ha accentuato tutti gli aspetti di sfiducia e malessere collegati alla vita professionale. Ma al di là degli aspetti strutturali ed economici, quali sono i “demotivatori”, le cause intrinseche alla “Grande Rassegnazione”? Tornando al contesto americano, una ricerca del MIT Sloan Management Review ha identificato alcuni fattori che in maniera più marcata causano l’abbandono del lavoro presente da parte dei “grandi dimissionari”:
    1. la cultura tossica (come l’incapacità di promuovere la diversità, l’equità e l’inclusione; dove i lavoratori si sentono mancati di rispetto ed esistono comportamenti poco etici all’interno dei processi di lavoro);
    2. la precarietà, l’instabilità occupazionale e le continue ristrutturazioni che influenzano continuamente il turnover dei dipendenti;
    3. la mancanza di riconoscimento delle performance laddove le aziende che non premiano le performance migliori riscontrano tassi di abbandono più elevati; oppure quando i dipendenti parlano più in generale della carenza di politiche della propria azienda per la protezione della salute e del benessere;
    4. i tassi di innovazione troppo alti e la difficoltà a stare dietro ai cambiamenti di questo tipo: rimanere all’avanguardia richiede ai dipendenti di dedicare più ore, lavorare a un ritmo più rapido e sopportare più stress di quanto farebbero in un’azienda che si muove più lentamente. Il lavoro può essere eccitante e soddisfacente, ma anche difficile da sostenere a lungo termine.
    chi sono gli italiani che lasciano il lavoro - MIT Sloan Management Review
    Source: MIT Sloan Management Review
    La grande sfida aziendale è oggi prendere coscienza di queste “tossine” e coinvolgere nuovamente e in maniera più autentica e significativa i propri lavoratori. Le Grandi Omissioni sono e saranno quelle dovute alle mancanze di attenzione a questi segnali da parte dei datori di lavoro oppure gli obiettivi che i lavoratori non vorranno o non potranno raggiungere perché demotivati e rassegnati ad uno stile produttivo abbandonato all’inerzia. LEGGI ANCHE: Grandi Dimissioni: come far innamorare di nuovo le persone delle aziende 

    Yolo Economy, Tang Ping e gli “Sdraiati” del mercato del lavoro

    Il senso di malessere e di rassegnazione dall’avere fiducia in un rapporto di lavoro soddisfacente è arrivato simultaneamente in tutto il mondo, facendo ribattezzare in alcuni ambiti questo nuovo approccio al mercato del lavoro come YOLO economy, dove YOLO sta per You Only Live Once, cioè “Si vive una volta sola”. Un acronimo che è tornato in auge negli ultimi anni a partire dal mondo rap americano (comunemente era attribuito all’attrice Mae West già ai primi del novecento: “si vive solo una volta, ma se lo fai bene, una volta è sufficiente”) e che è stato abbinato spesso e volentieri alla generazione Millennial che nel decennio precedente ha espresso marcatamente la rilevanza dell’ experience (“meglio un passaporto pieno di timbri che una casa piena di oggetti”) e del purpose anche nel contesto lavorativo. In questa fase questo hashtag assume molto meno il suo senso edonistico, di disimpegno dalle responsabilità, o del vivere alla giornata, e si può tradurre con la voglia di vivere un’esistenza piena di significato, dove vita e lavoro sono armonizzate, e dove le scelte professionali aderiscono alla propria identità. Andando oltre i fattori estrinseci dello stipendio, della carriera e dei benefit. La YOLO economy sembra essere la vera grande discriminante tra il prima e il dopo pandemia. Sta di fatto che questo nuovo approccio sta cambiando il punto di vista con cui i lavoratori interpretano il mercato e come scelgono di viverlo. È stato rilevato che l’Italia ha un discreto numero di “intenders”, ovvero chi ha intenzione di cambiare lavoro nei prossimi mesi, e secondo le riflessioni contenute nell’ultimo report Microsoft Work Trend Index non sottovalutare questa tendenza è importante soprattutto per le nuove generazioni, che in azienda possono offrire nuove prospettive e modificare lo status quo soprattutto nell’ambito manageriale.
    grandi dimissioni - Microsoft Work Trend Index
    Source: Microsoft Work Trend Index
    Garantire che la Gen Z trovi un senso di purpose e di benessere è un imperativo urgente anche soprattutto nel passaggio che molte realtà aziendali stanno compiendo verso il lavoro ibrido. I dati confermano che l’ultimo anno è stato più impegnativo per la Generazione Z, rispetto alle altre generazioni, soprattutto nel riuscire a portare nuove idee sui tavoli di lavoro o nel sentirsi semplicemente più coinvolti o entusiasti della posizione che ricoprono. In questo aspetto ritroviamo la “Grande Rassegnazione” o semplicemente la rapida disillusione che il lavoro non corrisponde a come viene raccontato oppure che inevitabilmente il bisogno di armonia tra benessere personale e professionale è prioritaria non solo perché deve compensare lo stress post-pandemico, ma perché la consapevolezza che la “sicurezza psicologica” (da intendersi quella dei modelli Agile) sia un assunto imprescindibile nel contesto lavorativo anche per gli anni a venire. Il fenomeno è talmente globale che assume forme diverse in base alla cultura di riferimento: il movimento di protesta sociale cinese tang ping 躺平 (in inglese tradotto “lying flat”), è l’espressione di un rifiuto delle pressioni della società al superlavoro (il cosiddetto sistema 996), che è considerato come una corsa al successo esasperata. I giovani cinesi non sono socialmente isolati come gli hikikomori in Giappone, ma scelgono semplicemente di abbassare le proprie ambizioni professionali ed economiche e semplificare i propri obiettivi, rimanendo comunque produttivi ma solo per bisogni essenziali, dando priorità alla salute psicologica rispetto al materialismo economico. L’idea di “sdraiarsi” significa quindi prendersi una pausa dal lavoro incessante. Il movimento tang ping è decollato iniziato ad aprile 2021 poiché molti sentivano di essere sempre più sotto pressione per lavorare ancora più duramente e superare i loro coetanei: chi vi ha aderito vuole letteralmente solo “sdraiarsi” leggendo un libro o sedersi e guardare un po’ di TV, piuttosto che perseguire una hustle culture del lavoro sodo, ma schizofrenico. Sui siti di social media cinesi, gli utenti pubblicavano messaggi in cui affermavano che non volevano tornare come erano prima della pandemia e che ora avevano trovato la fiducia necessaria per perseguire una vita più lenta. Nell’immaginario italiano gli “sdraiati” sono quelli del romanzo di Michele Serra (“forse sono di là, forse sono altrove. In genere dormono quando il resto del mondo è sveglio, e vegliano quando il resto del mondo sta dormendo. Sono gli sdraiati. I figli adolescenti, i figli già ragazzi”), e quindi i giovani superficiali o disimpegnati, oppure gli scansafatiche e i parassiti del mercato del lavoro? Il dibattito di questo ultimo periodo si perde ancora, a volte, sull’importanza del sacrificio, della “schiena dritta” (anziché sdraiata) e della fatica, come se fossero l’unico ingrediente che permetta di raggiungere obiettivi lavorativi e il famigerato “successo”. Ma questo momento storico è unico nel suo genere e può permettere un cambio di paradigma del mondo lavorativo. Sono molti i filosofi contemporanei che lo rimarcano da tempo, ma oggi l’occasione di trasformare il concetto di performance lavorativa, al di là delle prospettive economiche è concreto, perché il sentimento condiviso è comune e soprattutto globale.

    Superare la società della performance

    Tra i segnali che ricaviamo dalla lettura di questi fenomeni di “Grande Rassegnazione” forse l’unica considerazione davvero rilevante è che la retorica dell’eccellenza, del talento e del successo sta perdendo di credibilità. Avere successo, per le generazioni di qualche tempo fa, significava affermarsi all’interno della propria cerchia sociale: potersi permettere beni materiali e oggetti da mostrare a familiari e amici faceva percepire agli altri di essere una persona di talento e di “successo”. Oggi tutto questo potrebbe tendere ad essere etichettato come old style, in poche parole da “boomer”. Anche la fiducia sulla potenza dei social media inizia a scricchiolare, per cui è quasi impossibile pensare di poter emergere anche impegnandosi duramente nella performance che richiede il marketing digitale: nella incommensurabile vetrina del web non c’è più lo stesso spazio di emersione e visibilità di anche solo quattro o cinque anni fa. Siamo esposti a troppi standard che risultano inarrivabili. La «società della performance», come scrivono magistralmente Maura Gancitano e Andrea Colamedici, punta tutto sui talenti, sulle capacità individuali e sulla spendibilità in ottica produttiva. Ma “Il talento è misurabile, la vocazione è inestimabile”: qualcuno potrebbe non avere talenti, ma tutti hanno una vocazione.   Il talento può essere fagocitato dalle logiche della società della performance, mentre chi segue la vocazione è in un certo senso più libero. Come rifletteva Jung, la vocazione non risponde allo Spirito del Tempo, ma allo Spirito del Profondo. Lo Zeitgeist è quello che vuole sentire di cose utili e che valgono, mentre lo Spirito del Profondo costringe comunque a parlare, al di là di ogni giustificazione, utilità e senso. Metaforicamente, la ricerca della posizione “supina” della Yolo Economy è un invito a entrare in contatto con se stessi, con lo Spirito del Profondo, con la propria vocazione, mantenendo la prospettiva della transitorietà, dell’imperfezione e dell’unicità della propria esistenza professionale e personale. Per questo, nel mondo manageriale si continua a sottolineare l’importanza dell’“equilibrio vita-lavoro” e del rispetto delle esigenze personali di ogni singolo lavoratore. Come afferma compiutamente Riccardo Maggioloperché una volta eravamo più aperti alla possibilità di “fare gavettae trovavamo convincente la retorica del “lavoro duro”? Perché fino a ieri eravamo persuasi della necessità di perseguire l’eccellenza tramite una indefessa e quasi cocciuta dedizione alla nostra professione o progetto, e oggi invece non ne siamo più così sicuri? Forse la risposta semplice è: perché le narrazioni del successo e della carriera non convincono più”. Nella prospettiva generazionale hanno funzionato per Baby Boomers o X Gen anche grazie alle congiunture favorevoli di crescita economica e tecnologica, ma oggi non sono più credibili nello stesso modo. Per Millennials e Zed Gen (ma anche per le generazioni più adulte) oggi è assolutamente normale darsi la possibilità di poter cambiare continuamente il proprio ruolo lavorativo. La “Grande Rassegnazione”, oltre le interpretazioni economiche e politiche, ci fa allora accorgere che probabilmente è in atto il più grande momento di orientamento professionale collettivo della storia. Una nuova generazione di lavoratori e lavoratrici che davvero riescono a domandarsi se sono sulla strada giusta, agendo senza condizionamenti, senza approvazioni esterne o riconoscimenti materiali. E senza essere troppo legati al denaro, al potere e alla descrizione vecchio stile del “successo”. Il futuro del lavoro è allora nella possibilità di accettare un nuovo modello di “successo” che comprenda la capacità di equilibrare la ricchezza economica e la celebrità anche con la salute psico-fisica, la consapevolezza del presente e i legami delle relazioni reali. Sovvertendo completamente il significato di pausa, di lentezza, e perfino di ozio. Come scrive Byung-Chul Han, “l’ozio comincia là dove il lavoro cessa completamente. Il tempo dell’ozio è un altro tempo. L’imperativo neoliberista della prestazione trasforma il tempo in tempo di lavoro, totalizza il tempo di lavoro. La pausa ne è solo una fase. Oggi non abbiamo tempo all’infuori di quello lavorativo. Ce lo portiamo dietro, così, non solo in vacanza, ma anche nel sonno. Per questo dormiamo agitati: i soggetti di prestazione spossati si addormentano come si addormenta una gamba. Poiché serve alla rigenerazione della forza lavoro, anche il riposo non è nient’altro che una modalità del lavoro: il rilassarsi non è l’Altro dal lavoro, ma il suo prodotto”