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Perché oggi è impossibile creare un mass market brand

I meccanismi principali dei media maggiormente fruiti dalle generazioni più giovani funzionano tramite retargeting e le persone vedono in continuazione quello che hanno già visto o che gli piace vedere. Questo stato di cose porta a produrre dei “miti settoriali”.

Creare un mass market brand risulta davvero complicato per diverse motivazioni: intanto, per semplificare, perché “non esiste più Pippo Baudo“, cioè un elemento universalmente riconosciuto indipendentemente dal gruppo di età a cui si appartiene.

Quando chiediamo alla gente se conosce Rosalba, Ghali e Ryan, sarà molto difficile ottenere una risposta affermativa per tutti e tre, perché sono tre miti di tre generazioni differenti. Rosalba è una famosa youtuber, Ghali è un rapper e Ryan di Ryan’s World è uno youtuber bambino, il più ricco del mondo.

Una volta, se avessi chiesto “chi è Pippo Baudo“, mi avrebbero risposto tutti trasversalmente, dalla nonna al nipotino di sei anni. Cosa è cambiato?

La differenza è che adesso, come direbbe McLuhan, è il media che crea il messaggio e la fruizione del messaggio. Nel momento in cui i media funzionano per retargeting e sono assolutamente settoriali e legati a una fruizione precedente, proponendo solo quello che la gente si aspetta di vedere, in maniera sempre crescente si formeranno micro-communities di persone che non conoscono assolutamente le preferenze delle persone accanto a loro.

Partendo da queste premesse, non è possibile far arrivare un unico messaggio a tutti e creare un mass market brand che vada bene per tutti.

Un’altra motivazione che rende impossibile la creazione di un prodotto di massa fruibile da qualunque generazione è che, all’interno di questo sistema di “disintermassmedializzazione” che stiamo vivendo si presenta un altro effetto sociologico: grazie alle migliori condizioni di vita generali a livello globale, perché il mondo è migliore di quello di 30 anni fa, per la prima volta ci sono sette generazioni sullo stesso pianeta.
Queste generazioni non hanno nulla da condividere l’una con l’altra, perché le tecnologie creano degli isolamenti, in termini di media, di fruizioni e quindi in termini di messaggi e linguaggi.

Sarà quindi sempre più difficile creare qualcosa come il Babbo Natale con il vestito rosso che sponsorizza Coca-Cola e va bene per tutti, o creare un programma televisivo visto da 15 milioni di persone. Esistono ancora, perché noi stiamo parlando di trend ma, in prospettiva, sarà sempre più complesso.

Una generazione diversa: le micro-community

La principale differenza della Generazione Z rispetto alle altre è il concetto di bellezza. Per esempio, gli adolescenti di oggi amano Sfera Ebbasta che, indipendentemente dai gusti e dall’orientamento sessuale, fino a qualche tempo fa non sarebbe mai stato visto come un esempio di bellezza. La stessa Billie Eilish non sarebbe mai stata vista come un sex symbol.

La nuova modella di Gucci ci insegna che questa generazione ha completamente un altro concetto di bellezza e tutti gli esperti di comunicazione dovrebbero interrogarsi su questo, e non soltanto per quanto riguarda la scelta del testimonial più adatto, ma proprio nell’obiettivo di creare qualcosa che abbia contatto con il cliente, che sia bello per lui.

Un altro punto importante di differenziazione è l‘accesso per micro-community. Con la Generazione Z è nato il fenomeno “finsta”, cioè l’ammissione che esista un “io reale” e un “io costruito”. I Millennials cercavano di utilizzare i social per mostrare la parte migliore di se stessi, la Generazione Z, invece, accetta che esista una parte “finta” di se stessi.

Dallo storytelling allo storydoing

La terza differenza rilevante, una indicazione davvero utile per tutti i marketers, è che lo storytelling sta lasciando spazio allo storydoing.

Tutti i nuovi strumenti di fruizione, tutti i nuovi media sono in realtà programmi di montaggio. Tiktok, ad esempio, è un mezzo di comunicazione che ha due caratteristiche principali: il riconoscimento sonoro e il riconoscimento per immagine, però, di base, la cosa che lo accomuna a Instagram, a Facebook e a tutti gli altri social network è che il contenuto all’interno è lasciato in mano al cliente, che è anche il consumatore finale.

A che cambiamento globale ha portato questa caratteristica? Fino a ieri, ad esempio, Samsung o Sony spendevano milioni di euro per produrre uno spot pubblicitario, nell’ottica di diffonderlo in televisione con un tempo stabilito di fruizione e per un periodo programmato, ipotizziamo per tre mesi di campagna stagionale.

Oggi, se un brand spende milioni di euro per uno spot, quali sono i canali migliori per diffonderlo? Di certo, mostrarlo per pochi secondi su Tiktok non garantisce un ritorno dell’investimento. Infatti, se fino a ieri le risorse erano destinate a costruire lo storytelling, oggi quelle stesse risorse devono essere destinate a costruire frame, format, framework di linguaggio, degli spazi dove la gente possa esprimersi, e dargli delle regole.

Il secondo step, che in realtà è primordiale, è che se un brand vuole dire alla gente come comportarsi, deve farsi riconoscere come autorevole. Il lavoro di identità è quindi proprio sul brand: tone of voice, comunicazione coerente, una chiara purpose. Come Patagonia, per esempio, che ha chiuso i negozi per supportare l’Earth Day.

Il supporto dei dati e lo spazio per l’innovazione

Pur in questo contesto di differenziazione e isolamenti delle community, l’analisi dei dati rimane essenziale. A prescindere dal canale di distribuzione del brand, che sia digitale o fisico è necessario continuare ad analizzare sempre i KPI fondamentali:

  • Vendite
  • Consumo medio
  • Numero di ticket
  • Conversion rate
  • Traffico

Alla base di questi KPI fondamentali ci sono tutti i dati che portano a questi cinque: la grossa fortuna del mondo digitale è che ti dà la possibilità di tracciare tutta la consumer journey ed è un’opportunità da non lasciarsi sfuggire.

Detto questo, però, se fai sempre le stesse cose ottieni sempre gli stessi risultati. La vera innovazione è quindi sapere che puoi misurare ma lasciare spazio all’opportunità di fare cose nuove, senza legarsi troppo al dato.

Non proporre mai nulla di nuovo è la miglior strada possibile per accartocciarsi, è un circolo vizioso che rischia di condurci in una spirale del silenzio. Bisogna sempre imporsi di lasciare almeno un 20% del proprio Product Mix alle nuove opportunità e alla sperimentazione.

L’introduzione dell’innovazione nel Product Mix, mettendo in relazione tempo e quantità di prodotto, dovrebbe seguire infatti questo percorso:

  1. consumatore Innovator – poco prodotto e poco tempo di immissione nel mercato
  2. consumatore Early Adopter – leggermente più prodotto e leggermente più tempo di immissione sul mercato
  3. consumatore Early Majiority
  4. consumatore Late Majiority
  5. Laggard

Questa curva indica precisamente quello che accade nel mercato e quello che dovrebbe accadere in tutti i Product Mix delle aziende, ma anche nel Time Mix di noi stessi: lasciare dello spazio per fare qualcosa di folle.

Le informazioni restano quindi importantissime: va bene ottenere la certezza del business attraverso i dati, monitorarli, seguirli, conoscerli, ma occorre lasciare un po’ di spazio, almeno il 10/15%, a seconda della propria situazione, per fare cose nuove.

Domenico Romano

CEO - FANDANGO CLUB CREATORS - Autore di "Open Retail. Innovazione sostenibile in un mondo di atomi e bit". Ha alle spalle anni di carriera presso importanti agenzie e aziende come AW LAB, Natuzzi, Original Marines, McDonald’s, Agritalia, L’Oréal e Ninjamarketing. Grazie al suo lavoro ha operato e vissuto in quattro continenti su cinque contribuendo attivamente a lanci di nuovi prodotti e nuovi format di distribuzione sul mercato.

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