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  • Quando i brand toccano i fili dell’alta tensione: La Molisana e altri illustri scivoloni

    Il caso La Molisana è solo l'ultimo di una lunga lista di brand che hanno visto le proprie parole ritorcersi contro

    11 Gennaio 2021

    • Le parole contano e i brand lo sanno. Cosa succede però quando i messaggi non funzionano come dovrebbero?
    • Il caso La Molisana e altri brand che hanno toccato i fili dell’alta tensione
      Abbiamo un rapporto complicato con le parole. Ci svegliamo la mattina mugugnando qualcosa, e la sera andiamo a dormire farfugliando sottovoce pensieri e desideri. Durante il giorno è un continuo giro di parole, con noi stessi e con gli altri. Iniziamo a parlare da piccolissimi per esprimere i nostri bisogni, per comunicare ma soprattutto per creare un legame con chi ci circonda. Le parole sono potenti, ma spesso le sottovalutiamo. La famosissima citazione, ripresa ovunque, di Oscar Wilde nella sua celebre opera “Il ritratto di Dorian Gray” affermava che l’unica cosa peggiore di far parlare male di sé è quella di non far parlare affatto di sé. Cosa significa esattamente? Parlarne bene o parlarne male non importa, l’importante è che se ne parli. Se il noto scrittore fosse vissuto nell’epoca dei social network, non siamo certi che la penserebbe ancora in questo modo.

    Il caso La Molisana: cosa è successo

    È un pomeriggio invernale di pioggia e freddo umido, hai appena spento il PC dopo 8 ore di smart working e decidi di fare uno spuntino. Apri la porta del frigo e arrivi alla triste conclusione: il frigorifero è vuoto. Spulci in ogni cassetto, setacci ogni angolo degli scaffali, ma nulla. Quindi ti armi di felpa, cappello e cappotto e ti avvii con poco entusiasmo al supermercato. Nel reparto pasta, senza nemmeno guardare prendi distrattamente qualche pacco a caso e continui il  giro. Poi a casa decidi di seguire una ricetta scritta e suggerita sulla confezione per gustare un bel piatto con un tipico “sapore littorio”. In che senso?!? Le “Tripoline”, le “Bengasine”, le “Assabesi” e le “Abissine”, sono questi i formati di pasta che hanno fomentato la polemica legata al pastificio La Molisana. I nomi scelti ricordano chiaramente la stagione del colonialismo italiano in Africa degli anni ‘30, eventi che non sono certo da celebrare, anzi. Ma la storia non può essere cancellata, il passato è importante perché ci ricorda ciò che siamo stati, nel bene e nel male, e ci insegna che possiamo migliorare e andare oltre. 

    Le reazioni

    Quello che ha fatto infuriare molte persone, però, è stata anche la descrizione e la motivazione per la scelta di questi nomi, una didascalia che fino a qualche giorno fa era presente sul sito dell’azienda e che era online dal 2018, ma che ora è stata rimossa, come sono stati cancellati e revisionati anche i nomi dei formati di pasta. parole brand Probabilmente il ricorso allo storytelling celebrativo, come ci tiene a sottolineare la scheda descrittiva delle Abissine, è quello che ha urtato di più il popolo del web e non solo, pronto a boicottare l’azienda e i suoi prodotti se non fosse intervenuta subito. Le reazioni però non sono state tutte negative, molti si sono schierati a favore de La Molisana, accusata sui social di essere fascista e di esaltare la parentesi colonialista italiana. In primis un articolo apparso su “Il Gambero Rosso” che ha preso le parti del brand definendo l’attacco subito un’aggressione senza senso e legittimando la scelta di questi nomi per descrivere un tipo di formato storico di pasta che, secondo il Gambero Rosso, va tutelato e protetto, e non stigmatizzato. Certo è che La Molisana non è l’unico pastificio ad aver associato a un certo tipologia di pasta queste nomenclature, altri lo hanno fatto e i prodotti gastronomici italiani degli anni ‘20 e gli anni ‘30 che conservano ancora questi nomi sono diversi.

    Come ha risposta La Molisana

    Rossella Ferro è una figura chiave del nuovo volto del brand La Molisana, oltre a esserne la responsabile marketing, e le sue scuse insieme a quelle degli altri membri dell’azienda non sono tardate ad arrivare. In un comunicato stampa del 5 Gennaio, si legge il rammarico riguardante i formati di pasta Abissine Rigate e Tripoline che hanno rievocato, citiamo testualmente, in maniera inaccettabile una pagina drammatica della storia italiana.  L’azienda ha poi provveduto alla sostituzione dei nomi e i dei contenuti testuali dei formati in questione. L’errore sarebbe nato da una svista, quello di non ricontrollare le schede affidate all’agenzia di comunicazione.

    Parole e brand: errori da non ripetere

    La Molisana non è l’unica azienda a essere stata per giorni nell’occhio del ciclone mediatico. I brand sanno quanto siano importanti le parole, ma a volte commettono dei veri e propri disastri, anche se le intenzioni sono ben diverse. Ricordate il caso Pandora di qualche anno fa?

    Pandora accusata di sessismo

    Natale 2017, un momento clou per i brand. Il COVID-19 non esisteva ancora e tutti eravamo indaffarati tra lavoro, impegni e la lista per i regali natalizi. Come in ogni ricorrenza, i brand preparano le proprie campagne marketing, tra parole sdolcinate e, purtroppo, cliché vecchi e superati. Il messaggio di Pandora arrivò molto chiaramente alle orecchie e agli occhi di tutti, specialmente a quelli delle donne. parole brand A caratteri cubitali, impossibile da non notare, questo cartellone affisso nella metropolitana di Milano, suggeriva cosa regalare a una donna. Un messaggio che, come l’azienda danese ha tenuto a precisare, è stato travisato, perché l’intento era quello di evitare di far regali convenzionali ma andare oltre e acquistare dei gioielli. Perché le donne amano i gioielli. E basta? Viene da chiederci ripensando alla vicenda. Dalla padella alla brace insomma (per restare in tema). Altro giro, altra corsa, altro brand.

    H&M razzista? La felpa incriminata

    Dicono che la bellezza sia negli occhi di chi guarda. Ma allora lo è anche il pregiudizio? Fino a un certo punto. Era il 2018, e H&M, la grande catena di abbigliamento low cost, pubblicizzava una felpa in grado di provocare una vera e propria polemica social. Un bambino di colore con una calda felpa verde per proteggersi dalle fredde temperature invernali e la scritta “Coolest monkey in the jungle”, cioè “La scimmia più cool della giungla”. Al di là della dicitura opinabile, il brand fu subito accusato di razzismo e di aver diffuso un messaggio di cattivo gusto. Ovviamente le immagini pubblicitarie furono immediatamente ritirate con tanto di scuse da parte l’azienda, che invece ha sostenuto di credere fortemente nell’inclusività e nella diversità.

    Barilla e il concetto di famiglia tradizionale

    Sempre a proposito di pasta, uno dei commenti più imbarazzanti fu quello di Barilla di qualche anno fa. Alla domanda sul perché nei suoi spot non venivano mai mostrate coppie omosessuali, Guido Barilla, ai microfoni di Radio 24, spiegò le sue motivazioni, dicendo che Barilla si rivolgeva alla famiglia tradizionale e per questo non avrebbe incluso nelle sue pubblicità persone omosessuali. La cosa più spiacevole fu quella di rimarcare la sua posizione aggiungendo che “se i gay non sono d’accordo, possono sempre mangiare la pasta di un’altra marca“. Il gelo. È inutile dire che la questione non è la fermezza nel credere in un tipo di famiglia, ma di annullare completamente tutte le altre e di non legittimarle. Le sue parole scatenarono un vero putiferio, seguito poi dalle scuse dell’azienda. Due anni fa una piccola svolta: una collaborazione tra Barilla e il brand streetwear GCDS ha dato alla luce un cortometraggio sul rispetto della diversità e l’inclusione, ispirato ai retroscena technicolor dei film anni ’60.

    Dolce & Gabbana e la crisi con la Cina

    I brand di moda sono quelli che, negli ultimi anni, hanno più volte sperimentato crisi e malumori, ma per quale motivo? Le ragioni sono davvero tante, ma ci si lamenta soprattutto per i retroscena del campo della moda, un mondo che esalta canoni di perfezione troppo alti, e spesso drastici. Noti marchi come Dolce & Gabbana, Patrizia Pepe, Victoria’s Secret e Carpisa hanno avuto i loro tempi duri. Vi ricordate quando il brand Dolce & Gabbana girò e fece circolare in Cina tre video che ritraevano una donna cinese mentre mangiava tipici cibi italiani come pizza e pasta, con le bacchette? La campagna per sponsorizzare l’imminente sfilata fu accusata di banalizzare la cultura cinese raffigurando, inoltre, le donne cinesi in modo stereotipato e razzista. Oltre al boicottaggio della nota maison, venne annullata anche la sfilata che doveva tenersi pochi giorni dopo a Shanghai. A tutto questo, dobbiamo poi aggiungere la comparsa di una serie di messaggi offensivi rivolti ai cinesi dall’account Instagram di Stefano Gabbana che però ci tenne a sostenere che quelle parole non erano sue. Come si concluse la vicenda? D&G cercò di sistemare la situazione, pubblicando un video di scuse per aver interpretato male e offeso la Cina, Paese di cui sono, come hanno tenuto a sottolineare, innamoratissimi.

    Come non comunicare: il caso Patrizia Pepe

    Forse nel 2011 i contenuti social non avevano ancora la forza virale di oggi, ma qualcosa si stava già muovendo. Svariati commenti sotto una foto promozionale del brand Patrizia Pepe fecero infuriare il social media manager o chi si occupava della gestione dei profili social del marchio. Le persone lamentavano un’eccessiva magrezza della modella protagonista della campagna, accusando la casa di moda di promuovere un canone di bellezza nocivo, stereotipato e superato. Alzare la voce con aggressività per difendere le proprie idee e le proprie posizioni non è mai la strada giusta, soprattutto per un brand. Alcuni di questi, quando si sentono minacciati, non riescono a gestire le crisi e si approcciano alla community in maniera troppo impulsiva e impetuosa. Anche in questo caso non sono mancate le dovute scuse da parte dell’azienda.

    Victoria’s Secret e lo stop alle sfilate

    Victoria’s Secret è un brand statunitense di abbigliamento femminile noto soprattutto per le creazioni di lingerie e prodotti di bellezza. Dal 1995 fino al 2019 il brand ha dato vita a uno show, seguitissimo, in cui la maggior parte delle super modelle più quotate del mondo hanno sfilato mostrando fiere e impeccabili sulla passerella i modellini striminziti del patinato marchio.  Ma il sipario, dopo ben 24 anni, è calato su questa passerella per tanti motivi. Nel 2018, durante un’intervista fu chiesto se anche le modelle Lgbt e taglie forti avrebbero potuto finalmente sfilare, ma il chief marketing officer Ed Razek asserì che non rientravo nelle fantasie che lo show intende vendere. Ma soprattutto, i ritmi che venivano richiesti erano massacranti per le modelle. Prima di ogni sfilata, non ingerivano cibi solidi, come la stessa Adriana Lima confessò al Daily Telegraph. Affermò di nutrirsi con solo frullati proteici nei 9 giorni precedenti allo show, e che nelle 12 ore prima della sfilata, eliminava addirittura anche i liquidi. 

    Carpisa e l’infelice proposta dello stage

    Un’idea che se studiata diversamente avrebbe potuto lanciare un messaggio positivo, soprattutto per i più giovani, si è trasformata inesorabilmente in un boomerang contro Carpisa.  La proposta era quella di “vincere” uno stage acquistando una borsa Carpisa, partecipare a un concorso, elaborando un piano di comunicazione, e sperare di essere scelti. Il compenso? Un forfait di 500 euro. Carpisa toppò alla grande perché l’argomento “lavoro” è uno dei più delicati da trattare, specialmente quando si parla di stage. Inoltre, il messaggio di acquistare un prodotto per “sperare” di ottenere in cambio un lavoro non è il massimo, soprattutto se ci si riferisce a un pubblico giovane che ogni giorno combatte con una precarietà diventata ormai insostenibile. Un’iniziativa trattata davvero con superficialità che fece infuriare il mondo del web a cui l’azienda ha risposto (anche in questo caso) con le più sentite scuse.  Spostiamoci adesso su un altro tema dibattuto e motivo d’imbarazzo per molte aziende. Purtroppo il razzismo continua a essere un problema gravissimo e spesso i brand hanno navigato senza rotta in acque davvero insidiose. Ecco tre casi che fanno parte a pieno titolo di questa raccolta di scivoloni illustri: Uliveto, Pomì e easyJet.

    Uliveto e la foto delle azzurre

    Dopo la finale dei mondiali di pallavolo femminile persa dalle azzurre contro la Serbia, il brand Uliveto decise di ringraziare le giovani giocatrici per il loro brillante percorso pubblicando una foto celebrativa, manifestando così gratitudine e orgoglio. Peccato per gigantografia di una bottiglietta d’acqua proprio sulle due atlete di colore, Miriam Sylla e Paola Egonu. Coincidenze? La bufera si abbatté violentemente sull’azienda, che a sua volta si difese asserendo che Uliveto non fa alcun tipo di distinzione. L’attenzione ai dettagli è una cosa che, specialmente in comunicazione, non si può sottovalutare.

    Pomì e i pomodori made in Padania

    pomodori pomi in lombardia Quando qualche anno fa venne alla luce lo scandalo della “Terra dei Fuochi”, le reazioni furono tante. Manifestazioni di solidarietà, certo, ma non mancarono episodi di vero e proprio sciacallaggio. Una vasta porzione del territorio campano compreso tra Napoli e Caserta ha visto un aumento considerevole di patologie mortali per gli abitanti della zona dovute all’inquinamento, da parte di gente senza scrupoli. In questo contesto arriva lo scivolone di Pomì, che in un momento delicato come quello, diffuse una campagna di comunicazione incentrata esclusivamente sulla provenienza dei suoi pomodori, in terreni localizzati in Padania, sottolineandone più volte l’origine con comunicati stampa e immagini promozionali ad hoc. Il problema non è affatto specificare la provenienza dei propri prodotti, ma approfittare di una problematica così grave per emergere. Molti si indignarono per questa presa di posizione, boicottando il prodotto, specialmente al Sud.  La rivalità Nord e Sud Italia è uno degli argomenti più tristi della nostra storia, e utilizzare questa polarizzazione in comunicazione, oltre che sgradevole, dovrebbe essere ormai superato.

    easyJet e l’offensivo spot sulla Calabria

    Le illazioni sul Sud Italia non si fermano qui: stavolta ci mette il suo anche easyJet. In uno spot finalizzato a rilanciare il territorio calabrese e a movimentarne il turismo, la compagnia aerea aveva pubblicato una descrizione denigratoria e fuorviante nei confronti di una delle regioni italiane più ricche di storia e bellezze artistiche.  easyJet è riuscita ad attirare solo malumori, critiche e l’indignazione, e non solo della Calabria. Le scuse della compagnia sono arrivate dopo poco, ma il problema rimane: perché alcuni brand  utilizzano luoghi comuni per raccontare i prodotti e servizi che vendono? Ognuno di questi esempi può insegnarci qualcosa sul valore delle parole e il rispetto verso le persone.

    Cosa sta cambiando nelle persone

    Per anni siamo stati spettatori di pubblicità sessiste, di spot e jingle inopportuni che rasentavano il razzismo, canoni di bellezza alterati e spesso dannosi, soprattutto per i più giovani, e cose a cui non facevamo tanto caso perché abituati a vederle distrattamente. Per fortuna la società stessa si evolve, cambia e non smette mai di farsi domande. C’è chi però crede che tutti questi contraddittori siano figli di un politically correct esagerato, che limiti le idee e la creatività, che sia una sorta di bavaglio soffocante, e la linea di confine tra ciò che è offensivo o meno, sta diventando sempre più sottile. È vero che “non si può dire più nulla”? La verità è che dimentichiamo il potere delle parole. Siamo così concentrati su quello che vogliamo dire che facciamo caso solo al contenuto ma mai al tono e al modo di parlare. Vogliamo così tanto dire la nostra opinione che ci dimentichiamo di metterci dal punto di vista degli altri. Abbiamo così timore dell’ignoto, dell’altro e di quello che non sappiamo, che preferiamo attaccare piuttosto che provare ad ascoltare. Chiudiamo la nostra carrellata con un po’ di speranza e con una campagna che invece vuole inspirarsi e far breccia sulla sensibilità delle persone.

    Abbracci da Barilla per gli infermieri e le loro famiglie

    In questo mese di gennaio, Barilla ha realizzato una limited edition dei suoi famosi biscotti, gli Abbracci, per supportare gli infermieri e le loro famiglie donando loro il 100% dei ricavi. Un gesto di solidarietà per chi, tutti i giorni e da quasi un anno, sta lavorando senza sosta, anteponendo la vita degli altri alla propria.  I medici, gli infermieri, tutte le persone che lavorano in ambito medico e in strutture sanitarie stanno facendo il possibile e tenendo duro, aiutando e supportando le persone più fragili e colpite da questo maledetto virus. Un piccolo gesto da parte delle aziende, anche simbolico, per supportare chi ne ha bisogno.  abbracci barilla infermieri Ovviamente le polemiche non sono mancate: c’è chi parla di un’astuta mossa di marketing e chi invece crede nei gesti spontanei, anche se provengono da colossi dell’economia italiana.

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