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  • Facebook cancella Casapound: pro e contro di una scelta che farà discutere

    La certezza sul fatto che certe piattaforme siano veramente libere viene meno

    11 Settembre 2019

    Prima di cominciare questo post, è doveroso fare una logica premessa: qui non si ragiona su una parte politica. Stiamo semplicemente osservando un fatto, che, nell’ordine, coinvolge una piattaforma digitale pensata per la socialità, alcuni movimenti politici e, in generale, un bacino di utenti pari a 31 milioni di persone. Cominciamo dall’inizio di questa storia, tracciando una brevissima cronaca dei fatti.

    Casapound e l’estrema destra sparisce da Facebook

    Il 9 settembre, con una mossa a sorpresa, la piattaforma di Mark Zuckerberg ha oscurato le pagine Facebook e i profili Instagram legati alle due organizzazione di estrema destra CasaPound e Forza Nuova, oltre a quella principale di Simone Di Stefano, leader dell’organizzazione. Durante l’arco della giornata, si scoprirà poi che la chiusura ha riguardato anche le pagine alcuni esponenti dei due partiti. La mossa del colosso americano arriva nella giornata della fiducia votata alla Camera del governo presieduto dal presidente Giuseppe Conte e in concomitanza con una manifestazione di protesta che si è svolta davanti al palazzo di Montecitorio, voluta dal partito Fratelli d’Italia, al quale si sono aggregati diversi movimenti sovranisti, fra cui la Lega e, appunto, CasaPound e Forza Nuova. La misura, recita una dichiarazione di Facebook citata da Il Sole24Ore, è stata messa in atto per contrastare i contenuti pubblicati dai diversi canali: «Le persone e le organizzazioni che diffondono odio o attaccano gli altri sulla base di chi sono non trovano posto su Facebook e Instagram. Per questo motivo abbiamo una policy sulle persone e sulle organizzazioni pericolose, che vieta a coloro che sono impegnati nell’”odio organizzato” di utilizzare i nostri servizi. Candidati e partiti politici, così come tutti gli individui e le organizzazioni presenti su Facebook e Instagram, devono rispettare queste regole, indipendentemente dalla loro ideologia. Gli account che abbiamo rimosso oggi violano questa policy e non potranno più essere presenti su Facebook o Instagram». Diverse le reazioni alla notizia: decine i post di utenti che approvano la scelta (non li riportiamo perché numerosissimi), mentre Di Stefano in un tweet denuncia la scelta e parla apertamente di censura. Alcuni giornalisti, come Vittorio Feltri preferiscono buttarsi sull’ironia mentre Emanuele Fiano, deputato del Partito Democratico, si interroga sulla logica che ha portato alla scelta. Questi i fatti. Ora veniamo alle riflessioni.

    Perché sì, perché (forse) no

    La scelta di oscurare i canali di CasaPound, di Forza Nuova e di alcuni esponenti di questi due organi politici è stata imputata non tanto all’estrazione cosiddetta “neofascista”, ma al fatto che diffondessero odio (rimanendo fedeli alle dichiarazioni sopra riportate). La domanda che ci facciamo, da osservatori della dimensione digitale e delle meccaniche sociali che il web ha permesso, è la seguente: qual è stata la causa scatenante a determinare che tali misure venissero adottate? Non è una domanda di poco conto, a maggior ragione considerando il tempismo con cui è stata data esecuzione all’atto in sé. I due movimenti politici oggetto del provvedimento infatti non hanno pubblicato sui social contenuti diversi rispetto al passato: sono sempre stati coerenti dall’inizio della loro attività social. E se violenza e odio sono state effettivamente ingredienti della content strategy di tali soggetti, non si può dire che siano stati adottati solo nell’ultima settimana. In altri termini: se Facebook e Instagram hanno ritenuto di agire nell’interesse della comunità, probabilmente dovevano agire prima.    Delle due l’una: o prima non ritenevano grave l’azione dei soggetti in questione, oppure oggi è sopraggiunto un fattore che ha cambiato le carte in tavola. Su questo secondo punto, però, ci sentiamo di dubitare, dato che niente sembra esser cambiato rispetto a ieri. Ecco allora che si crea un bug nel ragionamento e  ci fa riprendere con attenzione la richiesta di chiarimenti fatta dall’onorevole Fiano: quali sono state le condizioni che hanno portato il social network più importante del mondo a cancellare uno spazio d’espressione, seppur con tutte le criticità del caso- proprio in questo momento? Vi fermiamo subito e lo sottolineiamo. Non stiamo parteggiando per una parte o l’altra: stiamo cercando di capire quali siano le logiche che portano a compiere scelte di questo genere. Nel caso che stiamo analizzando, poi, non si può neanche parlare chiaramente di un reato (il perché lo ha spiegato egregiamente Il Post qualche tempo fa), dato che in quei due canali si esprimevano idee, per quanto convenzionalmente ritenute sconvenienti. È la stessa domanda che pone Rolling Stones. Il dubbio che alcuni stanno instillando (probabilmente cavalcando un interesse particolare) è quello della censura governativa. Altri invece si limitano ad esultare, convinti che la cosa porterà giovamento a tutta la community. Quest’impossibilità a capire quale sia stata la ratio dietro la scelta è però un problema, anche molto grave. Come osservatori dobbiamo registrare come il cambio di metro di giudizio sui contenuti pubblicati (che è il vero metro per valutare la bontà di una piattaforma dove, fra le altre cose, scambiamo decine di migliaia di informazioni personali) sia stato fatto in corsa, senza alcun tipo di coerenza con quanto fatto prima. Peraltro, sono moltissimi gli ambienti digitali dove l’odio online, il body shaming, senza contare il traffico di contenuti sensibili e potenzialmente pericolosi, sono praticati quotidianamente senza alcun tipo di controllo. Famoso in questo senso il fenomeno di viralizzazione della cosiddetta Bibbia 2.0, di cui tanto ha parlato Selvaggia Lucarelli, che prefigura un reato verso minori, ma che tuttora pare essere tranquillamente discusso nel buio di ambienti come i famigerati gruppi chiusi. Perché Facebook non è intervenuto tempestivamente anche lì? E perché non interviene, ad esempio, nei decine di aggregati sociali dove si esaltano fenomeni come la mafia o l’istigazione al razzismo, che gettano le basi per fenomeni violenti? Ecco quindi che se da un lato la scelta di chiudere spazi dove “si incitano l’odio e la violenza” deve comunque lasciar spazio, al netto delle conclusioni personali di ognuno, a uno sguardo più asciutto e disinteressato verso il fatto.

    Il potere di dire “Sì” o “No”

    Il punto centrale è che probabilmente non esiste una vera policy, indiscutibile, sulla gestione dei contenuti sui social media, e non è un problema solo su Facebook.  Per un problema di numero di contenuti (basta farsi un giro su Internet Live Stats per capirlo), ma anche perché queste piattaforme sono per loro natura votate al profitto: e come tali, devono tener conto di cosa spingono e di cosa permettono. È un fatto che la valutazione su un contenuto, di un canale, di un aggregato di persone, al di là della distribuzione pubblicitaria, sia fatta secondo canoni diversi dalla qualità che va garantita alla community: sono fatte volta per volta, e certamente non sono immuni dal tipo di clima che si respira. Ecco allora che la certezza sul fatto che certe piattaforme siano veramente libere viene meno, e non è così secondario se consideriamo che ad oggi circa 3 miliardi e 400 milioni di persone (chi più, chi meno) hanno  riversato la propria vita in quei server. Il potere di permettere a un utente di proliferare e condividere i propri contenuti o di cancellarlo istantaneamente è enorme, tanto quanto la capacità di viralizzare un messaggio e influenzare le persone attraverso messaggi falsi o che scatenino i peggiori istinti. Se non viene fermato con gli stessi indiscutibili criteri uguali per tutti, o viene azzerato basandosi su scelte arbitrarie a seconda del momento storico, allora mette in dubbio l’oggettività del giudizio, e le regole del gioco cambiano. A essere minata è la fiducia che si può avere nella stessa piattaforma. Questo può orientare i comportamenti che si possono assumere al suo interno, perché viene a mancare una reale sensazione di controllo e sicurezza. Sarebbe giusto cominciare a ragionare sugli habitat digitali in cui viviamo come luoghi veri, lasciandosi alle spalle la definizione di non-luoghi e cominciando a considerare ogni gesto online una diretta emanazione del nostro vissuto offline: per primi, oltre ai “cittadini” di questi spazi intangibili, deve farlo proprio chi le sviluppa e le offre in concessione. Per far questo, è necessario immaginare regole ferree esattamente come nella vita reale, che siano a prova d’interpretazione e applicabili senza alcun tipo di dubbio: perché oggi è toccato a due soggetti minoritari con idee quantomeno discutibili. Domani potrebbe toccare ad altri, e non è detto che siano la minoranza. Non è in gioco solo una pagina fan, ma la libertà di chi le usa. Quindi, praticamente, di (quasi) tutti noi.