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  • Ecco perché siamo felici davanti a un mattoncino LEGO o a un mobile IKEA

    Avere un ruolo nel processo creativo di un prodotto o un servizio genera soddisfazione, si chiama "effetto IKEA"

    11 Luglio 2019

    Oggi ognuno di noi ha un accesso praticamente illimitato a qualsiasi tipologia di prodotto. Basta connettersi a una piattaforma come Amazon, ad esempio, per vedere soddisfatti tutti i propri desideri e necessità. Non solo, si possono anche ottenere prodotti fatti su misura dei propri bisogni, dei propri interessi e delle proprie preferenze estetiche. Sono numerosi i sistemi, infatti, che consentono ai consumatori di rendersi protagonisti in diverse fasi del design. Pensiamo, ad esempio, ai tanti configuratori online per personalizzare un paio di scarpe, una t-shirt, un oggetto d’arredamento. Queste piattaforme contribuiscono alla soddisfazione di bisogni “utilitaristici”, ma anche all’appagamento psicologico di chi utilizza tali piattaforme. I vantaggi per chi eroga questo tipo di servizi sono molti, da una parte a livello di brand loyalty, dall’altra per quanto riguarda l’effettiva disponibilità da parte dell’utente a pagare per quel prodotto. E se connettersi a una di queste piattaforme comporta dopotutto uno sforzo poco considerevole, pensiamo a quando ci si costruisce autonomamente qualcosa. Infatti, sono innumerevoli i casi in cui le persone hanno bisogno di un prodotto, di un oggetto e lo realizzano in autonomia, e alla fine i “maker” sono proprio i consumatori stessi. L’alternativa esiste sempre: comprare una cuccia da giardino al proprio cane o assemblarla da sé? Oppure, banalmente, passare in pasticceria a prendere una torta già pronta o farsi ispirare dall’ultima puntata di “Bake Off”? Ancora, prendere la scorciatoia del “Login con Facebook” o curare dettagliatamente il proprio profilo quando ci si iscrive a un’app? Ma cos’è che spinge un utente a lavorare, fare fatica, personalizzare un prodotto, prendere parte a un processo? IKEA furniture

    L’effetto IKEA

    Negli anni Cinquanta, negli Stati Uniti, vennero introdotti i preparati per torte istantanee. Venivano presentati come parte di un trend volto a semplificare la vita delle casalinghe americane minimizzando il lavoro manuale. Il risultato? Le casalinghe non erano soddisfatte. I mix rendevano tutto troppo facile, facendo sembrare le abilità individuali delle “donne di casa” di allora assolutamente sottovalutate. Il concept venne modificato: i produttori cambiarono la ricetta chiedendo di aggiungere al preparato un semplice uovo. Un dettaglio che cambiò tutto, facendo salire alle stelle le vendite dei preparati per torte. Cosa ci dice questo esempio di circa settant’anni fa? Quando le persone dedicano a un prodotto il loro stesso lavoro, i loro sforzi, automaticamente ne fanno aumentare il valore e la loro personale valutazione. Senza contare che alcune “fatiche” offrono sicuramente intrattenimento. Per questo, costruire qualcosa, rendersi protagonisti e parte di un processo di creazione crea un legame profondo, non equivale certo a ritrovarselo dopo averlo acquistato già “fatto”. L’azione, lo sforzo, crea in noi compiacimento e soddisfazione nell’essere riusciti a fare qualcosa di materiale di cui si vede il risultato concreto. Non solo: così facendo entriamo in sintonia e creiamo un vero e proprio legame con l’oggetto creato. Questo fenomeno viene definito “effetto IKEA”. Lo psicologo che ha concepito tale concetto (insieme a Michael I. Norton e Daniel Mochon) è Dan Ariely, che lo descrive nel suo libro “Perché. La logica nascosta delle nostre motivazioni” per ROI edizioni come l’inclinazione delle persone a conferire più valore e a pagare di più per un prodotto progettato o realizzato da sé rispetto allo stesso prodotto progettato o realizzato da un’altra persona. Gli esempi di utilizzo di questo fenomeno sono innumerevoli. L’azienda americana Build-a-Bear offriva alle persone l’opportunità di costruirsi il proprio orsetto di peluche, imponendo però anche un sovrapprezzo per questa possibilità. Sempre in America erano molto diffuse le cosiddette “haycations”, ovvero vacanze in cui i clienti stessi pagano per coltivare e raccogliere il cibo che mangiano durante il loro soggiorno presso una fattoria. Oppure si pensi a LEGO, un’azienda che ha fatto suo il concetto di costruirsi autonomamente qualcosa, con dei semplici mattoncini colorati. O ancora, per IKEA, l’azienda che ha ispirato il concetto, l’innovazione è rappresentata dall’autonomia del consumatore nel costruirsi un oggetto d’arredamento. LEGGI ANCHE: hhsdjh, abbiamo chiesto al Social Media Team di IKEA Italia cosa c’è davvero dietro alle famose sei lettere
    Dan Ariely - Effetto IKEA
    Dan Ariely è uno dei più famosi e apprezzati divulgatori in ambito economico e psicologico. È protagonista, grazie ai suoi studi sull’irrazionalità della mente umana, anche del documentario (Dis)Honesty: The Truth About Lies
    Inserendosi nel processo di creazione di un oggetto, o semplicemente personalizzandolo secondo il proprio gusto personale, una persona aumenta le possibilità di vedere soddisfatto un bisogno. In questo senso, non si evoca solo una soddisfazione, per così dire, psicologica, ma anche funzionale. Inoltre, in molti casi il processo di co-creazione ha come risultato la realizzazione di un prodotto di per sé unico, da cui una persona trae utilità. Quest’ultima, poi, è generata anche dallo stesso processo di design, che intrattiene, diverte. Il risultato è proprio l’effetto IKEA, che incrementa il valore percepito da un utente verso un oggetto da lui creato. Dopo aver preparato una carbonara coi fiocchi, non vi sentite un po’ Cannavacciuolo? Questo perché l’atto di fare, costruire, co-creare genera anche un desiderio di segnalarsi come identità competenti sia per sé stessi che per le altre persone. In poche parole, progettando o assemblando qualcosa ci si sente automaticamente abili in quel processo, acquisendo una sensazione di competenza che si desidera condividere (è lo stesso motivo per cui il classico “nerd” viene preso di riferimento da familiari, amici, vicini di casa o cugini di terzo grado, per qualunque problema in ambito tecnologico. Può sembrargli una rottura, ma sicuramente il “nerd” si sente appagato per sentirsi competente in quell’ambito). Sentirsi appagati e competenti, però, non sono gli unici fattori che entrano in gioco quando si parla di “effetto IKEA”. Quando si realizza qualcosa autonomamente ci si sente orgogliosi, si ha la sensazione di aver raggiunto un vero e proprio traguardo. Arrivare alla fine di un manuale IKEA e aver montato da soli la nuova libreria da mettere in salotto genererà una sensazione completamente diversa da acquistare una libreria e farsela montare da due operai. L’orgoglio entra in gioco anche nel semplice assemblaggio di un prodotto, che istantaneamente assume un valore molto alto per il “creatore”. Il grado di soddisfazione, poi, è anche legato al fatto di essere in controllo del processo di creazione. Per questo, anche solo ad assemblare qualcosa ci si sente come dei veri artigiani: chi costruisce vede il frutto del suo lavoro e crea un rapporto con quanto sta facendo materialmente. È questo rapporto, poi, che influisce anche nella cosiddetta willingness to pay, la disponibilità a pagare per un bene. I creatori di un oggetto valuteranno quell’oggetto molto di più di chiunque altro. Il rapporto con un prodotto e il tempo che vi si dedica hanno un valore personale, intrinseco nella soddisfazione di averlo creato. E la soddisfazione non è monetizzabile. LEGGI ANCHE: Vi sveliamo cosa significano i nomi dei 10 prodotti di IKEA più amati di tutti i tempi Samara IKEA Effect

    L’utente protagonista per una migliore User Experience

    Le persone, quindi, sono disposte a pagare di più per prodotti che contribuiscono a creare rispetto allo stesso prodotto pre-assemblato. La regola generale risulta essere che più alto è il contributo che l’utente fornisce più alta sarà la valutazione di quel prodotto. Quindi, se lo sforzo richiesto a livello di UX è troppo elevato o il contributo risulta essere irrilevante, ci si potrebbe ritrovare davanti a un utente che non completerà il compito “assegnatogli”. La conseguenza è che non si innescherà l’effetto IKEA. Per questo, l’effetto IKEA si attiva quando ci si trova davanti a un prodotto dove il livello di sforzo è basso ma il contributo percepito (e dunque il valore ad esso attribuito) è alto. In fase di progettazione, bisogna far rompere l’uovo all’utente per far sì che si ritrovi una torta squisita e cotta alla perfezione. In poche parole, è importante lasciare il controllo del processo (o almeno, una parte) all’utente. Solo così instaurerà un forte rapporto con il prodotto o servizio in questione. IKEA Effect Ecco, quindi, che anche solo la compilazione di un profilo o la personalizzazione di un template può diventare molto importante, in grado di costruire una prima esperienza con il prodotto o servizio estremamente dinamica e viva nella sua interazione. Lasciare all’utente semplici operazioni come mandare la propria prima email o impostare un widget possono essere dettagli decisivi per la sua soddisfazione finale. C’è da riflettere, quindi, su quanto spesso si cerchi di rendere semplice un processo per chi interagirà con il processo stesso. Si cerca sempre di creare una situazione in cui l’utente abbia il minor sforzo possibile, ma è davvero la cosa giusta da fare? Non si rischia di appiattire la UX e di far calare la soddisfazione generata da quel piccolo sforzo in grado di “dare qualcosa” a chi utilizza un prodotto o un servizio? Se si parla di buon design, dobbiamo ricordarci che tutto parte dall’utente finale: un design è ben riuscito quando l’utente è soddisfatto. E se l’utente è soddisfatto quando viene chiamato in gioco, è giusto chiamarlo in gioco.