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  • Stupro virtuale, cyberbullismo e revenge porn: a che punto siamo con l’educazione civica digitale

    Partendo da casi reali, abbiamo analizzato i dati delle ultime ricerche e chiesto agli esperti a che punto siamo in Italia nella lotta a questi fenomeni

    14 Marzo 2019

    È da qualche settimana disponibile nelle librerie e online il libro Uccisa dal web. La vera storia di un femminicidio social. Dalla testimonianza diretta di Maria Teresa Giglio, scritto dai giornalisti Romina Farace e Luca Ribustini. Il testo cerca di far luce sul caso di Tiziana Cantone, la ragazza 33enne morta suicida nel 2016 dopo la diffusione di alcuni video che la vedevano coinvolta in rapporti sessuali (del caso ci eravamo occupati anche noi). LEGGI ANCHE: Social Network e revenge porn: qual è il punto della situazione?

    L’impatto della diffusione di contenuti privati online

    Nel testo, che si propone di approfondire la vicenda che sta continuando nelle aule dei tribunali (per approfondire l’inchiesta sul caso, consigliamo l’ascolto di questa intervista a uno degli autori), fin dal titolo si riporta in auge un tema che sta lentamente cominciando ad emergere con prepotenza: quello dell’impatto devastante che può avere la divulgazione di informazioni e contenuti personali online senza controllo del legittimo proprietario. Un caso particolarmente eclatante che può servire a dare nuova linfa al dibattito sull’educazione civica digitale e la protezione di dati, a maggior ragione oggi che è arrivato alla ribalta della cronaca il primo caso di “revenge porn politico”. Protagonista la deputata del M5S Giulia Sarti, di cui sono state diffuse delle immagini particolarmente sensibili, e sul cui caso si è espresso anche il Garante per la Privacy Antonello Soro, che ha pubblicato qualche ora fa una nota: “Con riferimento a notizie relative alla possibile circolazione di immagini molto personali della deputata M5s Giulia Sarti, richiama l’attenzione dei mezzi di informazione al rispetto della normativa in materia di protezione dei dati personali e del codice deontologico dei giornalisti. Tali regole impongono al giornalista di astenersi dal diffondere dati riguardanti la sfera intima di una persona per il solo fatto che si tratti di un personaggio noto o che eserciti funzioni pubbliche, richiedendo invece il pieno rispetto della sua vita privata quando le notizie o i dati non hanno rilievo sul suo ruolo e sulla sua vita pubblica”. Tutte le forze politiche hanno preso posizione per difendere la deputata, per sottolineare l’importanza del diritto alla privacy e stigmatizzare i comportamenti di quanti (per strappare un click in più o per semplice vouyerismo) stanno diffondendo tali contenuti. Rolling Stones, addirittura, ha scelto di fare un appello a non diffondere il materiale, se ricevuto (a cui aderiamo). Certamente, però, non è questo il primo caso in cui in particolare è coinvolta una donna, che vede pesantemente violentata la propria dimensione personale a causa di uno scarso rispetto della propria intimità, e forse da un’incauta modalità di utilizzo del web.

    A che punto siamo, ce lo spiegano gli esperti

    A che punto siamo con il processo collettivo di presa di coscienza dell’importanza della tutela dei propri dati online? E quanto si sta sensibilizzando rispetto ai fenomeni come il cyberbullismo o il revenge porn, piaghe sociali ormai diffuse a tutti i livelli d’età, che colpiscono in particolare giovanissime, ragazze e donne? Certamente, il percorso è ancora lungo, anche dal punto di vista semantico, considerando come siano ancora tantissimi i termini impiegati per parlare di questi fenomeni. Cogliamo l’occasione per farne il punto su Ninja, facendoci aiutare da alcuni importanti studiosi del fenomeno.
    Credits: Depositphotos #93065994
    Ivan Ferrero, psicologo delle nuove tecnologie e fondatore del sito bullismoonline.it, a proposito ci dice: “Porn revenge, hate speech, trolling, stupro virtuale, catfishing… Il panorama del cyberbullismo come viene inteso in senso classico è tristemente molto variegato, e comporta dinamiche differenti a seconda dei casi. Il termine stesso “cyberbullismo” di per sé ha perso, negli anni, la capacità di riunire sotto lo stesso ombrello fenomeni così differenti tra di loro. Oggi per cyberbullismo in senso stretto si intende una serie di atti ripetuti nel tempo mirati a ledere una persona specifica. Questa definizione quindi prevede l’esistenza di un piano con un obiettivo preciso e predeterminato, la messa in opera di una catena di azioni volte al raggiungimento dell’obiettivo, e possibilmente la loro iterazione nel tempo. La necessità di questi elementi ad esempio esclude buona parte dell’hate speech, per il quale siamo più in presenza di un’impulsività di un’azione volta non tanto a ledere un bersaglio, quanto a permettere all’agente di sfogare e scaricare una sua tensione interiore. Nel caso dell’hate speech quindi la lesione della persona oggetto degli insulti non è l’obiettivo, ma più una conseguenza. Anche i ruoli ricoperti dagli attori sono differenti a seconda del fenomeno. Nel cyberbullismo in senso stretto abbiamo i classici ruoli del bullo, della vittima e degli osservatori, per quanto possano essere molto più fluidi rispetto al bullismo tradizionale. Questi tre ruoli possono non essere tutti presenti negli altri fenomeni“. LEGGI ANCHE: Cosa c’è dietro il cyberbullismo (e come stanare gli haters)

    Qualche numero su cyberbullismo e cyberharassment

    I dati sono ancora contrastanti, anche se ci sono diverse conferme che qualcosa sembra andare in una direzione diversa. Morti come quelle di Tiziana Cantone, o della giovanissima Carolina Picchio di Novara, hanno aiutato l’opinione pubblica e le istituzioni a prendere coscienza di quanto ci fosse da fare, a livello formativo e legislativo, gettando le basi per un lavoro che coinvolgesse tessuto scolastico e forze dell’ordine. Al di là dei casi di cronaca appena citati, infatti, possiamo considerare il percorso ancora lungo e tortuoso. I dati ci mostrano, in Europa e in Italia, un fenomeno che ancora probabilmente non ha mostrato il proprio picco: cyberbullismo e cyberharassment, revenge porn e il cosiddetto “stupro virtuale” (termine proposto da Nunzia Ciardi, direttore del servizio di Polizia Postale e comunicazione) sono aree che stanno emergendo con prepotenza nell’elenco dei reati che quotidianamente vengono compiuti. Lo spaccato di quanto il nostro Paese si stia attrezzando rispetto al macrotema lo offre il corpo di Polizia Postale, che ha diffuso lo scorso dicembre alcuni dati riguardanti le azioni compiute nel 2018. Alcuni insight particolarmente significativi, in particolare considerando la fascia d’età più bassa (per leggere l’intero comunicato, che dà conto anche di azioni contro le truffe cyberfinanziarie e la lotta al terrorismo sul web, si rimanda al sito del Commissariato online della PS). Sono state contate oltre 10.922 le denunce fatte dagli utenti, 19.088 le richieste di informazioni e 18.722 le segnalazioni ricevute dai cittadini. Sono stati monitorati per condotte discriminatorie di genere, antisemite, xenofobe e di estrema destra oltre 5000 spazi virtuali. Cala il fenomeno della Blue Whale (di cui avevamo parlato anche noi con un’inchiesta ad hoc: prima parte e seconda parte) che ha probabilmente raggiunto il suo hype nel 2017, e per cui sono state ricevute circa 700 segnalazioni, che hanno poi portato a eseguire 270 comunicazioni di reato presso le procure: ma è un’eccezione. Di segno opposto sono  i trend riguardanti fenomeni più tristemente comuni. Molto maggiori i numeri legati ai reati contro la persona perpetrati sul web: il ricatto online è considerato fenomeno in crescita,  con “940 casi trattati dall’inizio dell’anno, atteso che il dato emerso è parziale e fortemente ridotto rispetto alla reale entità del fenomeno. Sono 20 le persone denunciate e 2 le persone arrestate in Italia nel 2018“. Alti i numeri rispetto ai fenomeni più gravi, quali revenge porn e simili: “955 persone e 8 persone sono state tratte in arresto, per aver commesso estorsioni a sfondo sessuale, stalking, molestie sui social network, minacce e trattamento illecito di dati personali“. Rispetto a questo, viene evidenziato come: “l’aumento del numero degli adolescenti presenti sul web ha determinato una crescita esponenziale del numero di minorenni vittime di reati contro la persona: dai 104 casi registrati nel 2016 si è passati a 177 nel 2017 e 202 casi trattati nel 2018, le vittime hanno tutte un’età compresa tra i 14 e i 17 anni.” Quest’ultimo punto, considerando come il trend sia in crescita, è da considerarsi decisamente allarmante. In costante aumento anche le diffamazioni online, in particolare verso esponenti politici e cosiddetti vip: nel 2018 -comunica la polizia postale- sono state denunciate 685 persone. Infine, è la stessa Polizia Postale a introdurre il già citato termine “stupro virtuale”, definendolo così: “All’interno di gruppi chiusi i partecipanti di sesso maschile condividono foto, ricercate sui social o copiate da contatti WhatsApp, di donne ignare, ritratte nella loro vita quotidiana, dando poi sfogo a fantasie violente e comportamenti offensivi“.
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    Ivan Ferrero conferma il tasso di crescita registrato dalla Polizia Postale: “Svolgo progetti di educazione digitale, anche di contrasto al cyberbullismo, ormai da anni ed ogni anno entro in molte scuole, e mi sento di confermare questo triste trend. Ciò non accade perché l’essere umano si è fatto improvvisamente più cattivo, ma è dovuto a vari fattori legati a come sta evolvendo la nostra Società negli ultimi anni. Il primo è che ogni anno si abbassa l’età di accesso ai dispositivi privati: i ragazzi, ma ormai potremmo tranquillamente parlare di ‘bambini’, entrano in possesso di smartphone di loro proprietà in età sempre più precoce. Abbassandosi l’età in cui i ragazzi entrano in possesso di dispositivi privati a cui i loro genitori fanno fatica ad accedere, si apre una finestra sempre più ampia di età in cui possono accadere i fenomeni spiacevoli di cui stiamo parlando. Il secondo è che ogni anno aumenta la consapevolezza da parte degli adulti riguardo questi rischi. Grazie al battage mediatico e agli incontri formativi dedicati agli adulti ormai presenti in tutta Italia, gli adulti stanno prendendo maggiore consapevolezza della pericolosità di questi fenomeni. Inoltre diventano anche maggiormente consapevoli delle attività digitali dei loro figli, cosa che gli permette di venire a conoscenza di eventuali criticità in corso. Infine, ogni anno aumenta la fiducia da parte dei ragazzi nei confronti degli adulti. Grazie ai progetti di educazione digitale che io e molti altri miei colleghi portiamo ogni anno nelle scuole di tutta Italia, i ragazzi acquisiscono una sempre maggiore consapevolezza dei reali rischi ed effetti di questi fenomeni. Inoltre acquisiscono maggiore fiducia nell’individuare un adulto di riferimento a cui rivolgersi in caso di criticità, per se stessi oppure per un amico. Questo è un fatto molto positivo, perché ci permette di venire a conoscenza di atti di un maggiore numero di atti di cyberbullismo che altrimenti rimarrebbero sotterrati“.
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    I numeri della Polizia Postale sono confermati anche da una ricerca diffusa da Microsoft in occasione dell’ultimo Safety Internet Day, svoltosi lo scorso 5 febbraio: il Digital Civility Index -recita il comunicato stampa- analizza le attitudini e le percezioni degli adolescenti (13-17) e degli adulti (18-74) rispetto all’educazione civica digitale e alla sicurezza online in 22 Paesi, Italia inclusa. I dati che emergono sono anche in questo caso abbastanza inquietanti: l’Italia si colloca al nono posto su 22 fra i Paesi più esposti a rischi online. Il 52% degli intervistati (media internazionale 51%) dichiara di essere stato oggetto di bullismo online, in particolare di offese gratuite. La categoria più esposta è quella dei millennial e delle adolescenti: il 69% dei nati tra gli anni ’80 e ’90 e il 69% delle teenager dichiara infatti di provare molto disagio per esperienze di questo genere. Fra queste ultime, di quante dichiarano di esser state coinvolte in pericoli online, il 44% si rivolge ai propri genitori per chiedere aiuto (+2% rispetto alla media globale). LEGGI ANCHE: Perché i social media possono far calare l’autostima negli adolescenti La ricerca pone anche attenzione su come dall’online si possa passare a pericoli reali/offline: fra gli utenti che hanno dichiarato di esser stati minacciati attraverso il web, il 53% ha incontrato di persona l’autore della minaccia e, nel 26% dei casi, le minacce sono perpetrate da familiari e amici (+8% rispetto allo scorso anno). Che tipo di pericoli ci sono: il Digital Civility Index spiega: “Il 64,5% degli intervistati dichiara di essere stato vittima diretta – o di conoscere almeno un amico o familiare che ha vissuto questo tipo di esperienza – di almeno uno dei tre principali rischi online: contatti indesiderati, fake news e bullismo“. In tutto questo, meritano un focus gli adolescenti, che in una ricerca  portata avanti dal consorzio Miur – Generazioni Connesse, in collaborazione con l’Università degli Studi di Firenze, l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e da Skuola.net, condotta su un campione di quasi 6.000 persone, specifica quali siano le abitudini di utilizzo di sistemi digitali di comunicazione (citata sul sito dell’Associazione Nazionale Orientatori). 1 ragazzo su 16 risulta non essere iscritto a nessun social network, mentre 8 adolescenti su 10 utilizzano sistemi di chat con la famiglia o con uno dei genitori.
    Telegram per le aziende
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    Focus su WhatsApp: per quasi il 44% degli intervistati è utile per tenersi informati per le diverse comunicazioni di servizio e quasi il 15% lo utilizza per scambiarsi informazioni a distanza. Il 22,4%, invece, considera la piattaforma di IM (instant messaging) di Mark Zuckerberg comunque una fonte di incomunicabilità. Occhio alla privacy: 4 ragazzi su 10 ammettono di non conoscere almeno la metà degli amici che hanno sui propri social network, e il 68% dichiara di essersi imbattuto almeno una volta in un profilo falso. 1 su 4 non si è mai preoccupato della propria privacy online e il 29% lo ha fatto solo sporadicamente. Incrociando i dati con i risultati proposti dal Digital Civility Index, otteniamo una prima proiezione che può mappare il comportamento delle persone e come da una serie di abitudini prettamente digitali si arrivi a cambiare il proprio approccio al prossimo: rispetto al 2018, ci dice la ricerca di Microsoft, “diminuisce infatti del 2% l’inclinazione a trattare gli altri con rispetto e dignità, e del 5% la propensione a utilizzare impostazioni di privacy più rigide sui social media”. Accortezze che riemergono come necessarie quando ci si ritrova oggetto di soprusi digitali: le vittime registrano una perdita di fiducia nelle persone sia online (48%) sia offline (34%); il 28% riduce le attività su social media, blog e forum e cala la volontà di compiere azioni positive dopo essere stati esposti ai rischi online.

    Quali soluzioni al problema?

    È un fatto che oggi il tema dell’educazione civica digitale sia una necessità, anche perché gli effetti sui fenomeni analizzati dalle ricerche presentate finora fotografano una situazione che non possiamo non definire a rischio. È ancora Ivan Ferrero a entrare nel dettaglio di quali possano essere le conseguenze del trovarsi immersi in situazioni simili: “Gli effetti a lungo termine possono essere numerosi, e possiamo distinguerli tra effetti diretti e indiretti. Tra gli effetti diretti abbiamo tutto ciò che possiamo ricondurre alla sindrome da stress post-traumatico e non solo: insorgenza di disturbi dell’umore, perdita del sonno oppure sonno disturbato da pensieri di morte e da incubi, crollo dell’autostima e autoefficacia, generando un costante e diffuso senso di incapacità nell’affrontare nuove situazioni, ritiro sociale di vario grado, fino ad estremi quali l’auto-reclusione, evitamento della scuola, in alcuni casi fino al drop out, frantumazione della propria identità. Tra gli effetti che potremmo definire indiretti abbiamo tutte quelle conseguenze che derivano da comportamenti che la vittima assume e che sonno potenzialmente dannosi per la sua salute, ad esempio abuso di sostanze stupefacenti e di alcol, caduta in problemi quali anoressia e bulimia e assunzione di sostanze per tentare il suicidio, ma che lasciano gravi segni anche permanenti nell’organismo della persona. Tutto questo fino a gesti estremi quali, appunto, il suicidio.“. In questo, l’Italia forse non ha ancora saputo sviluppare un insieme di anticorpi idonei, anche se c’è stata una notevole accelerata nella ricerca di strumenti per contrastare tali fenomeni. In particolare, è centrale comprendere quanto sia opportuno discernere fra dimensione digitale e analogica, comprendendo però come questi due mondi possano comunque toccarsi: nella realtà il diffondere informazioni sensibili è rischioso, così sul web. Per questo il legislatore si è dotato di strumenti utili a regolamentare la diffusione dei dati e permettere di dare un perimetro in cui è permesso usare informazioni strettamente personali (come anche il numero di telefono) e dove invece non è regolare. Indicazioni queste che valgono non solo per l’argomento oggetto della nostra inchiesta, ma anche ad esempio per le aziende. L’avvocato Roberta Rapicavoli spiega: “L’attenzione per la protezione dei dati personali da parte del legislatore, nazionale ed europeo, è elevata, come dimostrano i più recenti interventi normativi. Mi riferisco al Regolamento UE 2016/679 (noto anche come GDPR – General Data Protection Regulation) e al D. Lgs. 101/2018 (decreto di adeguamento della normativa nazionale al regolamento), ma anche alla Direttiva europea 2016/1148 sulla sicurezza delle reti e dei sistemi informativi (nota come Direttiva NIS, recepita nel nostro ordinamento con il D. Lgs. 65 del 2018), alla riforma del registro delle opposizioni in tema di marketing telefonico e cartaceo (ad opera della Legge 5/2018) e all’iter di modifica, non ancora concluso, della Direttiva e-privacy che disciplina anche la materia dei cookie e del marketing attraverso strumenti automatizzati (quali email, SMS o messaggi di altro tipo).” La domanda che rimane è: “Le pene per chi usa il web in maniera impropria sono attualmente sufficienti, o è necessario inasprirle?“. L’avvocato risponde così: “Nel mondo online, come in quello reale, esistono regole da rispettare ed esistono sanzioni di varia natura nel caso di loro violazione. Personalmente non credo che, almeno in generale, il problema sia legato al quantum delle sanzioni. Penso sia invece centrale rafforzare la consapevolezza legata all’esistenza di specifiche responsabilità per chi pone in essere comportamenti illeciti, anche nel web, e diffondere la conoscenza delle modalità con cui, chi è vittima degli illeciti commessi, possa far valere i propri diritti“. Un punto di vista che Ivan Ferrero completa, dal punto di vista professionale di chi lavora appositamente per sensibilizzare ed educare: “Le nuove Leggi, sebbene non perfette, hanno dato un grosso contributo in tal senso prevedono fondi dedicati a progetti di prevenzione e intervento di questi fenomeni, obbligano le scuole ad avere al loro interno la figura della Referente al cyberbullismo, con opportuna formazione e hanno previsto un iter legale per la denuncia e le pene costruito appositamente per le caratteristiche di questi fenomeni. Più in generale, queste Leggi hanno riconosciuto l’esistenza di un fenomeno che è differente da tutti quelli a cui si faceva riferimento in precedenza per l’individuazione del reato (diffamazione, lesione dell’immagine della persona, ecc…). Questo apre le porte ad altri futuri provvedimenti e soluzioni studiati ad hoc”. “Che cosa si potrebbe fare di più? Alleggerire la burocrazia per la formulazione di progetti e la raccolta dei fondi nelle scuole, quindi anche accelerando i tempi di attivazione di eventuali misure di intervento, istituire la figura di un esperto del tema a cui le scuole possano fare riferimento in modo tempestivo in caso di bisogno“.

    L’importanza dell’educazione digitale

    L’educazione al digitale diventa quindi materia centrale nel percorso di crescita dei giovani in età scolare, anche perché i giovani internauti di oggi saranno gli utenti del web di domani. Non basta però pensare a comprendere gli strumenti, ma comprendere che anche nel digital la nostra umanità, il nostro essere comunità in un tessuto sociale, è reale, tangibile e autentico. Non esiste un web che si basa su meccaniche sociali diverse dal reale: esiste però un web che amplifica le dinamiche sociali, accelerandole in maniera esponenziale. Per questo è necessario lavorare a un percorso che intanto faccia capire come si possa essere cittadini autenticamente digitali, non soltanto nell’utilizzo degli strumenti ma anche nel modo di pensare. LEGGI ANCHE: Facebook spiega ai ragazzi come navigare sul social in sicurezza Spiega ancora Ivan Ferrero: “Educare al digitale, elemento sempre più necessario nella nostra Società, deve essere accompagnato da un’educazione all’affettività e ai sentimenti. Possiamo vederli come i tre vertici di un triangolo. Questo deve essere fatto all’interno delle scuole, ma non solo: il ruolo della famiglia, che spesso è la prima scuola per i ragazzi, è importantissimo nell’orientare i pensieri e i sentimenti di un bambino, che poi diventerà il ragazzo con in mano uno smartphone. Quindi è necessario che anche i genitori si formino non solamente sulle App e le piattaforme Web utilizzate dai loro figli, ma anche e soprattutto sulla relazione genitore-figlio, elemento necessario affinchè il ragazzo possa sentirsi a suo agio nel riferire di eventuali criticità che stanno accadendo nella sua vita digitale. Inoltre un ambiente famigliare in grado di ispirare fiducia e sicurezza nel ragazzo gli permette di placare, o almeno ridurre, quel senso di disagio che può portarlo a compiere certe azioni.
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    Anche la società in sé, intesa come il quartiere e il comune, ha la sua parte di responsabilità nel creare intorno al ragazzo sia degli ambienti positivi, sia una rete a cui il ragazzo possa ricorrere in caso di necessità. E le singole piattaforme Web possono fare molto curando la loro UX Design in modo da guidare i loro utenti verso comportamenti positivi. Ad esempio, in una ricerca è stato misurato che inserendo un secondo step prima della pubblicazione di un commento o post, anche un semplice pop up in cui viene chiesto se si è veramente sicuri di volere condividere, è possibile ridurre i commenti negativi anche del 93%. Stiamo parlando quindi di una soluzione decisamente più efficace delle più blande campagne di sensibilizzazione che queste piattaforme ogni tanto propongono ai loro utenti. Come possiamo vedere, per prevenire e intervenire su questi fenomeni di Rete l’unica nostra soluzione è quella di adottare la loro stessa strategia e fare Rete a nostra volta. Sostituire questa Rete fatta di odio con una Rete fatta di positività, fiducia, sicurezza, è l’unica strategia veramente utile se vogliamo aiutare i nostri ragazzi, e non solo loro“. La legge continua a cercare i responsabili della morte di Tiziana Cantone, del suicidio di Carolina Picchio o della messa alla berlina di Giulia Sarti: casi come il loro possono però aiutarci a costruire un domani in cui ci sia più consapevolezza nell’uso del web 2.0 e dei vari canali social, affinché si possa migliorare l’ecosistema digitale in cui siamo immersi ogni minuto della nostra vita. Parte tutto dalle persone: la speranza è che questo cambiamento avvenga prima che altri casi simili si verifichino.