Perché amiamo i brand del lusso. Sì, anche tu li ami
Quando abbiamo soddisfatto le esigenze primarie, tendiamo a sviluppare bisogni appartenenza, stima e successo
13 Marzo 2018
Ci siamo spellati i polpastrelli digitando sulle nostre tastiere da marketer cartelle, file, migliaia di battute compulsive dove raccontavamo di quanto il consumatore fosse cambiato, della sua attenzione, del know-how acquisito, di quanto i mercati fossero diventati conversazioni.
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Come non ricordare con un po’ di nostalgia le slide delle lezioni di marketing all’università, quando i social si stavano ancora affacciando al mercato italiano e da Top-Down, la comunicazione diventava Ono-to-Many.
Lo senario era apocalittico, i brand dovevano adeguarsi, pena l’estinzione.LEGGIANCHE: Da Google a Coca-Cola, così i grandi marchi diventano (anche) fashion brand.
Invece, da allora non possiamo che dirci testimoni del suicidio di alcuni Luxury Brand. Come mai questo consumatore sempre più informato, informatico, democratico e pragmatico non ha ucciso l’edonismo a colpi di share “losapeviche”?
Perché sono (loro, i consumatori, non noi eh!) rimaste persone e la piramide di Maslow è cambiata solo in termini, non in significato. Una volta che abbiamo mangiato e bevuto, soddisfatti i bisogni primari, tendiamo a sviluppare prima bisogni di appartenenza e poi bisogni di stima, prestigio e successo, che portano alla celeberrima realizzazione del sé e delle proprie aspettative.
Come facciamo a comunicare al mondo che noi sì, noi l’abbiamo scalata la piramide? Perché non con una bella Instagram Stories dedicata a quanto la nostra nuova Vuitton si abbini perfettamente al Camel Coat di MaxMara e al nostro nuovo ruolo di team leader in ufficio?
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Poco importa se abbiamo risparmiato mesi per comprarla, o che ci siamo indebitati per averla perché non possiamo realmente permettercela. I bisogni cedono il passo ai desideri, l’acquisto è terapeutico e, per dirla come Thorstein Veblen (economista americano dell’800, morto casualmente a Menlo Park), ne “La Teoria della classe agiata”, l’identificazione è fatta in “modelli vincenti”.
Chi siamo è cosa indossiamo?
Se vogliamo scomodare anche la scienza, uno studio pubblicato sul Journal of Experimental Social Psychology, rivela che la bassa autostima è un fattore determinante nell’acquisto di un bene di lusso anche se è una cosa che non possiamo permetterci.
A fare da spalla ai reparti marketing, che come missione hanno quella di continuare a coltivare il sogno, è arrivato anche l’eCommerce, accorciando la filiera, mettendo solo un paio di click tra noi e una sciarpa da 500 €.
I beni di lusso sono una fast-therapy senza obbligo di ricetta, farmaci da banco accessibili ovunque, sempre, soprattutto quando ti senti un po’ giù.
Ci sono cose nella vita che richiedono di essere legittimate: vorrei comprare un Kelly Wallet di Hérmes da 2.550 €, ma sul conto ho giusto i soldi per pranzare da qui al prossimo stipendio e le carte di credito hanno chiesto asilo politico ai vicini di casa. Perché?
Perché la marca si è insinuata nella mia psiche, tessendo una trama fitta fitta di emozioni profonde, a volte travolgenti, impossibili da rifuggire. Quando vediamo quel fermaglio placcato argento e palladio (è lo stesso di Iron Man vero?), la pelle di vitello Epsom, il nome, ci sentiamo davvero un po’ come Grace. Non vediamo un oggetto funzionale a uno scopo, non stiamo rispondendo al bisogno di “un contenitore per contanti e tessere”, stiamo soddisfacendo un desiderio.
Nuovi mercati, pattern vincenti
La domanda delle domande è sempre una: quale sarà il futuro di questo mercato?
La risposta è altresì sempre e solo una: “I Millennials”, questa specie di fiera dantesca, fatta di nati nella seconda parte degli anni ’80, convertiti digitali ma non completamente nativi, quelli che ricordano ancora le cabine a gettoni, gli arcade, ma sono stati anche fieri pionieri digitali con lo smartphone in mano e il mondo in tasca.
È quello che negli anni ’20 veniva definito “consumatore medio” o della più tecnica, maestra del Word of Mouth, la casalinga di Voghera. Vuol dire tutto e niente. Ma tant’è, se fai parte del mondo dei luxury brand, devi prestare attenzione a questa florida audience, la generazione che contribuirà maggiormente alla crescita di questo mercato: nel 2024 costituiranno il 50% delle entrate del mondo luxury, quando questo mercato, si stima, varrà oltre 1260 miliardi di euro.
Made in West
Non è una novità che quello asiatico sia un mercato che, in pieno lessico marketing 1.0, è ancora una “cash cow”, un’economia esplosiva. Un mercato dove la potenza del brand non è fatta solo di un ecosistema esperienziale volto alla realizzazione di sé, ma rappresenta una vera e propria dichiarazione identitaria. Il possesso deve essere visibile, i loghi devono essere pienamente esposti come dichiarazione di potere.
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Non solo questo, i consumatori asiatici considerano un plus l’internazionalità del brand, il suo essere “Made in West” e che questa caratteristica sia ampiamente condivisibile. Una lezione che l’orgoglio italiano GiorgioArmani scoprì quasi 20 anni fa quando, all’apertura del suo primo store monomarca a Pechino, pensando di fare cosa gradita, installò una grande porta laccata di rosso in pieno stile imperiale: ben presto fu chiaro al brand come questo escamotage non era affatto ai cinesi con reddito medio-alto. La marcia indietro fu rapida, omologando lo store allo stile occidentale.
Presidio digitale
I social media e il passaparola sono la prima e la seconda fonte di informazione dei cinesi, seguite a stretto giro dagli influencer, esattamente come nel mercato occidentale. Considerata l’importanza del digitale nel mercato cinese e il tempo medio speso a reperire informazioni sui brand online, i luxury brand devono continuare o aumentare il loro presidio online, investendo sugli eCommerce per fornire una nuova esperienza d’acquisto integrata e senza interruzioni.
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