Che piaccia o meno, è successo. Donald Trump presidente degli Stati Uniti d’America: è il quarantacinquesimo, dopo uno degli head-to-head più incerti degli ultimi decenni.
Tendenzialmente tutti i media ed i sondaggi sembravano ben schierati a favore di Hillary, così come numerose star americane, dai giocatori dell'NBA a numerosi attori di Hollywood fino all’uscente presidente Obama.
Un endorsement non indifferente. Che però non è bastato.
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Cerchiamo dunque di capire insieme il perché di questa vittoria tanto inaspettata quanto sconcertante, focalizzandoci su tutti quegli aspetti che oramai ricoprono un ruolo centrale in ogni campagna elettorale degna di tal nome, soprattutto negli States: la pubblicità, il linguaggio utilizzato e le strategie di marketing dei due (ex) contendenti.
Donald Trump presidente degli Stati Uniti d’America
Il primo e fondamentale risultato è la costruzione in opposizione dei due candidati, in esponenziale aumento con l’avanzare del tempo: status quo versus cambiamento radicale, educazione e contenimento versus nessun riguardo ed esagerazione, storicità politica versus la figura del neopolitico, ossia un imprenditore di professione che finisce a fare il politico per popolare acclamazione.
Tutte opposizioni che sono state accuratamente cavalcate da entrambe le parti, ma da cui solamente una ha saputo trarre tutti gli spunti necessari per creare una figura forte, decisa e, soprattutto, che piacesse. Trump infatti ha fatto del suo linguaggio senza peli sulla lingua, carico di emotività, formato di parole semplici e senza retorica, un brand a sé stante.
Un brand chiamato Trump o, se preferite, make America great again. Uno slogan semplicemente geniale: corto e diretto ma pieno di emozione e significato intrinseco, con quel again finale che sottolinea come fino ad ora gli States siano stati solamente un paese tra tanti, e come finalmente sia arrivato il momento di riprendersi tutta la greatness meritata.
Dall’altro lato troviamo Hillary; la diplomatica, educata, mai scomposta Hillary, apparentemente sostenuta da tutti. Calma e sorrisi le parole chiave nei primi mesi, fino a quando non è emerso Trump come avversario. Al che il focus della campagna è cambiato radicalmente: il soggetto principale della comunicazione di Hilary è diventato proprio il suo antagonista.
E, come si suol dire nel mondo del marketing, "non esiste cattiva pubblicità" e Donald Trump presidente è ormai una realtà.
Riferimenti al passato di Trump, al suo linguaggio offensivo e sprezzante, alle sue idee ed ai suoi valori non facilmente condivisibili sono improvvisamente diventati il focus di ogni discorso della candidata democratica.
Ciò che Hilary sembra essersi però dimenticata è l’abitudine sviluppata dal popolo americano, o di una buona parte di esso, al linguaggio trumpiano: miserabili commenti sulle donne, pesanti affermazioni in ambito religioso, utilizzo continuo di vocaboli offensivi. Tutto però passa in secondo piano a fronte di una figura nuova e ristoratrice.
In fin dei conti, spendere tempo e milioni in pubblicità contro un Trump cui gli americani si erano già abituati e che oramai avevano già imparato a conoscere, non ha decisamente portato i frutti sperati.
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Tutto questo ha portato per lo più verso una direzione univoca: la concentrazione dei voti di protesta, di molti indecisi e di coloro che vedono nel non-politico la figura del neopolitico nel bacino elettorale di Trump. E tutto ciò è stato determinante.
Ciò che possiamo imparare da questa sfida elettorale è la fondamentale importanza di conoscere la propria audience (elettorato in questo caso), la capacità di sapersi immedesimare ed adeguarsi di conseguenza: una strategia comunicativa generalizzante e fortemente basata su contenuti emotivi più che razionali, che in altri tempi e luoghi sarebbe stata pesantemente condannata, ha portato un sottovalutato imprenditore a diventare il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America.