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  • Il lavoro che fai non definisce chi sei (o almeno non sempre)

    Può il nostro lavoro definire chi siamo? La risposta da un racconto del "The New Yorker"

    15 Maggio 2019

    “Ogni lettore, quando legge, legge se stesso”. Questo lo diceva Marcel Proust e ce ne rendiamo conto ogni volta che apriamo un libro o leggiamo un articolo. Persi in una storia, pagina dopo pagina, pensiamo che quelle parole parlino proprio a noi e vogliano dirci qualcosa. A volte a “parlarci”, a catturare in punta di piedi la nostra attenzione, può essere un breve racconto. Qualcosa che doveva essere una piccola pausa dopo il lavoro, letto così, di sfuggita, tra una mail e l’altra, ma che ha il potere di farci riflettere tutto il giorno, tutta la settimana o un mese intero. Racconti del genere, potete trovarli, per esempio sul “The New Yorker”, il magazine statunitense che è anche online, molto attento alla narrativa contemporanea. È strano, ma spesso le risposte che aspettavamo da un po’, arrivano quando ormai ci avevamo rinunciato, un po’ come il lavoro dei sogni. Probabilmente, il lavoro è proprio l’argomento più gettonato ai pranzi in famiglia e alle rimpatriate scolastiche. Croce e delizia davanti ad un caffè con un’amica. Motivo di esodo della maggior parte dei giovani. Parametro di giudizio per inquadrare qualcuno. Quante volte capita di essere giudicati (e di giudicare) in base al lavoro che svolgiamo ogni giorno? Conosciamo una persona e la prima domanda che ci pone riguarda il nostro lavoro. È più forte di noi, vogliamo inquadrare subito chi abbiamo davanti, pretendiamo di conoscere qualcuno attraverso quello che fa e non per quello che è. Il lavoro che facciamo, definisce ancora chi siamo? Dicevamo, le risposte che attendevamo con impazienza arrivano quando ci avevamo ormai rinunciato da tempo, ma quando poi finalmente arrivano ci mostrano chiaramente il quadro della situazione.

    Il lavoro che fai, la persona che sei

    Una serata tranquilla, dopo una giornata interminabile, finalmente comincia. Sorseggiamo, per inerzia, l’ennesimo caffè, sgranocchiamo dei biscotti senza glutine, senza lattosio, senza voglia. Le parole sullo schermo scorrono veloci, un’immagine cattura il nostro sguardo, ci avviciniamo al pc. Leggiamo con attenzione il titolo del racconto:  ” Il lavoro che fai, la persona che sei”. Continuiamo a leggere, tutto, fino in fondo. Restiamo immobili. Smettiamo di sgranocchiare gli insipidi biscotti.

    Toni Morrison è una scrittrice statunitense e una sera decide di raccontarci una storia. Parte da qualcosa di intimo, personale, un ricordo. Ci racconta di una bambina povera, che vive in un periodo di grande instabilità per lei, per la sua famiglia e per l’umanità in generale. Il periodo della seconda guerra mondiale. Una ragazzina che deve imparare presto ad essere più grande dell’età che ha, perché c’è la guerra e tutti devono dare una mano, anche i bambini.

    Lavora, dopo la scuola, per una famiglia molto diversa dalla sua, in una casa e in un quartiere differenti da tutto ciò a cui è abituata. La sua realtà è quella che, in certi versi, consociamo anche noi. Precaria, incerta. La casa in cui va a svolgere le pulizie, invece, è accogliente, piena di comodità. Ne è, inizialmente, affascinata. Il lavoro le dà soddisfazione. Non è più una bambina qualunque. Può comprare i fumetti, le caramelle e tante altre cose, con quei 2 dollari. Ma non solo. Può contribuire alle piccole spese quotidiane.

    Lei non è come quei bambini delle favole, abbandonati nel bosco perché visti come “bocche da sfamare”. Ha un ruolo nella sua famiglia, un ruolo nella società. L’infanzia è finita, ed è bello.

    Il lavoro aumenta e lei diventa sempre più brava, ma qualcosa comincia ad andare storto. Inizia a barattare parte della sua paga per dei vestiti usati. Per una bambina che staa crescendo così velocemente, iniziare a collezionare abiti, rispetto ai due soliti e noiosi vestiti, è meraviglioso. Ma la madre lo nota e la rimprovera, accusandola di lavorare per ottenere in cambio degli scarti.

    Una lezione che le fa aprire gli occhi e capire che non deve accettare compromessi da qualcuno che la paga in cambio di un lavoro svolto duramente. Ma certamente, non è facile, a volte si sente in dovere di mostrarsi disponibile per paura di perdere il proprio lavoro.

    Il disagio ormai è forte e la piccola lavoratrice si sente alle strette. Non vuole parlarne con la madre, perché non vuole sentirsi di nuovo una bambina e tornare indietro. Un giorno però, qualcosa succede. Si trova in cucina con suo padre e tutto viene fuori. È più forte di lei. Si lamenta della sua situazione. Suo padre ascolta attentamente ogni parola. Non un minimo cenno di comprensione nei sui occhi, né di biasimo. Non le mostra una via di fuga, ma le mostra la cosa migliore che una persona dovrebbe avere, nel momento del bisogno, una soluzione. Le sue parole sono chiare, lapidarie: “Ascolta, tu non vivi lì. Vivi qui. Con la tua gente. Vai a lavorare. Prendi i tuoi soldi. E torna a casa”.

    Possono sembrare parole dure, possono sembrare svilenti, ma sono la risposta che lei attende da tempo e che, in fondo, attende ognuno di noi quando è posto di fronte a un bivio. Non una via di fuga, ma la soluzione.

    Come finisce questa storia? La bambina fa sue quelle parole e quello che capisce e tutto ciò che non dovremmo mai dimenticare sul nostro lavoro. Perché il nostro lavoro non dovrebbe definirci totalmente.

    1. Qualsiasi sia il lavoro che fai, fallo bene, non per il tuo capo, ma per te stesso

    Nel momento in cui la nostra giovane, instancabile ape operaia migliora nel suo lavoro, mostra di essere all’altezza della situazione, svolgendo anche i lavori più faticosi alla perfezione. La proprietaria di casa, ossia il capo, avanza altre richieste, barattando, addirittura, la paga con dei vestiti usati. Ha sfruttato una sua debolezza, la vanità di una bambina che non ha mai avuto nulla, e che, improvvisamente, può comprare tutto quello che ha sempre desiderato. Il lavoro nobilita l’uomo e la donna, ma non dovrebbe renderli schiavi dei propri impulsi e il datore di lavoro non dovrebbe mai approfittarsene. Il lavoro va rispettato, non solo perché ci permette di esaudire i nostri bisogni, ma perché è qualcosa fatto da noi, per noi, prima di tutto. Un lavoro fatto bene appaga tutte le ore, le giornate e gli anni di studio, di gavetta, di sacrifici perpetuati da noi stessi. Se non lo facciamo per noi, se non ci fa sentire liberi, ma succubi, allora è il caso di porsi le domande giuste e cambiare rotta.

    2. Sei tu a fare il lavoro, non viceversa

    Siamo onesti, ci hanno inculcato da bambini dei concetti sbagliati. “Prima il dovere, poi il piacere”, ossia, lavora e poi divertiti. Tradotto, il lavoro è noioso, è faticoso. Oppure “Fai quello che ami e non lavorerai un solo giorno della tua vita”. Tutto questo è riduttivo. Sembra quasi che “ lavorare ” sia la cosa più orribile del mondo e che per rendere piacevole un mestiere, sia necessario amarlo per forza. E inoltre amare un lavoro non vuol dire creare necessariamente un valore per se stessi e per la società. Semplicemente non dovremmo sottovalutare mai che siamo noi a fare il nostro lavoro e non viceversa, siamo noi a metterci la forza, la voglia e la competenza. Potremmo amare il nostro lavoro e farlo male e allora sarebbe tutto inutile.

    3. La vita reale è con noi, la tua famiglia

    Le persone che non riescono mai a staccarsi dal proprio lavoro, sono quelle che lo amano a dismisura o si sono così identificate in esso tanto da annullarsi definitivamente? Amore e ossessione, la linea di confine può diventare sottile, a volte invisibile. La necessità di lavorare senza mai smettere, da cosa nasce? Ansia da prestazione? A volte è paura, tanta. Rifugiarsi nelle scartoffie invece che tra le braccia della propria famiglia, è evadere dalla realtà. Fuggire dal contatto umano perché la pratica non è stata ancora archiviata o il progetto non è pronto, non sarà mai la soluzione. Fermiamoci, un bel respiro e ripartiamo.Restiamo umani. Non dovremmo mai scegliere tra lavoro e famiglia. Lo stesso Jeff Bezos, CEO di Amazon, crede fortemente che la vita personale e quella lavorativa non dovrebbero essere separate, ma integrate tra loro. Devono collaborare insieme, altrimenti si crea un continuo contrasto.

    4. Non sei il lavoro che fai, ma la persona che sei

    Charles Bukowski, probabilmente uno degli scrittori più letti e amati da intere generazioni, una volta disse: “Avevo solo due scelte, quella di restare all’ufficio postale e impazzire, o quella di uscire dall’ufficio postale, scrivere e morire di fame. Ho deciso di morire di fame”. Qui arriviamo alla risposta che la bambina del racconto e noi, giovani lavoratori, indecisi se vivere per lavorare o lavorare per vivere, stiamo cercando, dai tempi della fine della scuola. Non siamo il lavoro che facciamo, ma la persona che siamo. Non è un lavoro a definirci, a murarci in uno stereotipo vivente. Siamo noi a scegliere di raccontarci attraverso le nostre passioni e i nostri sogni.