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  • I cinesi che hanno investito in Kenya sono accusati di discriminazioni

    I cinesi sono oggi protagonisti di un "nuovo neo-colonialismo", che fa ancora una volta dell'Africa la sua terra di conquista

    25 Ottobre 2018

    L’imperialismo non è morto ma vive e prospera anche nel ventunesimo secolo. Cambiano gli attori ma non il copione: il ricco alla ricerca di nuovi mondi da invadere e il povero usurpato e privato di terre e diritti e, spesso, anche della propria dignità. È una storia vecchia come il mondo che l’essere umano ha imparato, metabolizzato ma dalla quale non riesce a uscire vincitore. Il debole in terra straniera fa notizia mentre il popolo sottomesso dall’ospite straniero rimane spesso in un angolo invisibile all’opinione pubblica. È quello che sta succedendo in Kenya, o meglio, in molti Paesi del continente africano che negli ultimi anni hanno conosciuto l’oscuro lato di un “nuovo neo-colonialismo”, stavolta non europeo bensì cinese.

    Il video dello scandalo

    Circa un mese fa iniziò a circolare in rete un video: protagonista il proprietario cinese di un’azienda a Nairobi immortalato di nascosto da un suo dipendente, Richard Ochieng’, mentre insulta il popolo keniota e il suo presidente definendoli delle scimmie. https://youtu.be/isuNaQ9sv94 Subito dopo la diffusione del video le forze dell’ordine hanno arrestato e processato Liu Jiaqi, come riportato anche in un tweet dell’Ufficio Immigrazione del Kenya. Non si tratta di un episodio isolato ma di fatti, anche non direttamente legati a episodi di razzismo, che spesso degenerano in cronaca sgradevole che non fa onore a una super potenza mondiale come la Cina. Come il caso dei quindici cinesi arrestati con l’accusa di sfruttamento della prostituzione o quello di un altro piccolo gruppo di connazionali accusati di detenere oggetti che rappresentavano una minaccia per la sicurezza nazionale (radio trasmittenti, uniformi militari, laptop e metal detector).

    Investimenti e razzismo

    Quando in un Paese dalle scarse risorse economiche arriva lo straniero carico di promesse di investimenti lo si accoglie a braccia aperte, ma insieme ai soldi entrerà anche molto altro. Fu proprio il presidente cinese Deng Xiaoping (leader dal 1978 al 1992) a pronunciare la celebre frase “Se la Cina apre le sue porte, entreranno inevitabilmente delle mosche” per giustificare l’apertura del paese a un nuovo e del tutto inaspettato sistema economico che avrebbe, dagli anni ’80, condotto la Cina a diventare il colosso economico che tutti conosciamo oggi. Oggi quelle “mosche” sono proprio i cinesi e trasmettono valori che poco servono allo sviluppo sociale del Kenya. Ad accorgersene sono soprattutto le nuove generazioni, il futuro del Paese. Già colonia britannica dal 1920 al 1963, il Kenya visse sotto la supremazia inglese uno dei periodi più bui della sua storia, un periodo durante il quale la popolazione era costretta a circolare con dei documenti identificativi al collo. Ma il Kenya è anche riuscito a liberarsi dal fardello imperialista divenendo una stabile e orgogliosa democrazia. Le nuove generazioni di kenioti conoscevano solo indirettamente l’esistenza o la possibilità di tali atti di razzismo domestico. Ora invece sempre più spesso sono protagonisti di episodi di razzismo da parte della comunità cinese radicata nel paese grazie ad accordi economico-finanziari firmati tra il governo locale e quello di Pechino, sempre pronto a inondare di contanti chiunque lo accolga. razzismo-cinesi-kenya-2 Negli ultimi dieci anni la Cina ha investito moltissimo in diversi paesi africani creando infrastrutture e industrie in cambio di risorse naturali o riserve di gas e petrolio. Il prezzo da pagare è stato in realtà molto più alto visto che ha causato un innalzamento del debito e spesso l’aumento di episodi di sfruttamento dei lavoratori locali da parte di aziende cinesi. LEGGI ANCHE: La Cina sta trasformando l’Etiopia in un’enorme fabbrica fast fashion

    L’amara realtà della discriminazione in Kenya

    Secondo alcune testimonianze riportate in un’inchiesta del New York Times del 15 ottobre, ci sono stati gravi episodi denunciati alle autorità locali che vedono protagonisti boss cinesi in preda a deliri di onnipotenza razziale. Come quello descritto da chi sul posto di lavoro si è visto separare i bagni dei kenioti da quelli dei cinesi o la storia degli impiegati costretti a liberare un orinatoio intasato da mozziconi di sigarette che solo i dipendenti cinesi erano autorizzati a fumare. https://twitter.com/BabuMmoja/status/1054305496272912384 La popolazione cinese in Kenya è stimata intorno alle 40 mila unità, un numero non semplice da calcolare con esattezza, in parte per via del continuo viavai di persone che soggiornano per periodi relativamente brevi. Alcuni di loro arrivano e rimangono solo pochi anni lavorando in molte aziende con ruoli dirigenziali, vivono con altri cinesi concedendosi pochissimi episodi di interazione sociale con i kenioti. Molti di loro arrivano già con una visione gerarchica della cultura e della razza che tende a collocare gli africani in una posizione subalterna e inferiore.

    Il razzismo arriva direttamente dalla Terra di Mezzo

    Ma la Cina non è razzista da quando ha messo piede in Africa: si tratta di un Paese storicamente chiuso e molto spesso poco interessato, culturalmente parlando, a mettere il naso fuori dai propri confini. Chiunque abbia visitato la Cina sa bene che – anche vivendoci per anni – agli occhi dei cinesi sarà sempre un laowai (termine colloquiale cinese per definire un forestiero, ndr.). Non è un caso che l’immagine stereotipata dello straniero africano sia per loro ancora quella dell’uomo nero della tribù. A dimostrazione di ciò, un episodio di cui pochi sono a conoscenza che riguarda lo spettacolo serale della vigilia del capodanno cinese di quest’anno. Si tratta dello show trasmesso ogni anno dalla CCTV che tiene incollati tutti i cinesi (circa 800 milioni) alla TV nazionale e che alterna canti, balli e giochi a premi. Il programma quest’anno ha dedicato un episodio a un pietoso teatrino ambientato in Africa. Apertura mentale ed economica, insomma, non vanno di pari passo. Il Dragone avanza e rispolvera vecchi e – ahimè – ancora non superati valori di stampo imperialista che poco si addicono al ventunesimo secolo. Eppure c’è un’altra famosa citazione attribuita al presidente Deng Xiaoping che forse spiega (e cerca di giustificare) con devastante cinismo questo inaccettabile comportamento: “Non importa che sia un gatto bianco o un gatto nero, finché cattura topi è un buon gatto”.