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  • La Cina sta trasformando l’Etiopia in un’enorme fabbrica fast fashion

    Il Made in China si evolve e impara a fare outsourcing. La Cina non è più la fabbrica dell'Occidente e impara anche lei ad applicare l'imperialismo produttivo

    16 Aprile 2018

    La Cina non è più la più grande fabbrica di abbigliamento dell’Occidente. L’alunna ha infatti imparato molto dal suo maestro e ha fatto tesoro degli insegnamenti ricevuti, visti i mastodontici progetti messi in atto sui territori del continente africano e, soprattutto, in Etiopia. La Cina non è più la più grande fabbrica di abbigliamento dell’Occidente perché ha appreso e messo in pratica la convenienza dell’outsourcing e dello sfruttamento di un territorio (e una popolazione) che sia costretta a lavorare anche in condizioni precarie.

    Made in Ethiopia is the new Made in China

    L’Hawassa Industrial Park è nato in pochissimi mesi grazie al lavoro di un’impresa edile cinese a controllo statale che, con 250 milioni di dollari, ha tirato su 56 hangar prefabbricati allestiti per la produzione tessile. All’interno della Indochine International lavorano prevalentemente donne provenienti da villaggi limitrofi, che a fine mese arrivano a guadagnare un salario di circa 25 dollari. cina-etiopia-fast-fashion Le donne in questione hanno una suddivisione per numeri in cui la categoria “uno” ha accesso all’utilizzo delle macchine da cucire e alla lavorazione dei tessuti, mentre le categorie “due” e “tre” spettano le mansioni più umili come il packaging e le pulizie. Le donne “uno, due, e tre” sono l’altra faccia della medaglia di un’industria in continua espansione sempre alla ricerca di nuovi investimenti e manodopera a basso costo. L’industria dell’abbigliamento ha però cambiato rotta, visto che la Cina è improvvisamente diventata il principale interlocutore e soprattutto intermediario con il mercato occidentale per la produzione. cina-etiopia-fast-fashion-3 Quando parliamo di Occidente parliamo di nomi importanti brand come Guess, Levi’s, H&M, Tommy Hilfiger, Calvin Klein, ma anche dell’italianissima Calzedonia che fiuta l’affare e progetta nuovi investimenti per la produzione nel Corno d’Africa. Dopotutto, il progetto farebbe gola a chiunque visti gli ingenti sgravi fiscali: si parla di esenzione d’imposta sul reddito per i primi cinque anni e l’assoluzione da dazi o tasse sull’importazione di beni strumentali e materiali da costruzione.

    L’outsourcing cinese in Etiopia

    Come si sono create queste convenienti condizioni per gli investitori? Grazie all’intermediario, la Cina, che inonda di soldi l’Etiopia: si parla di quasi 11 miliardi di dollari solo tra il 2010 e il 2015, spesi in costosissimi contratti stipulati con compagnie cinesi che, grazie alla manodopera etiope, costruiscono strade, infrastrutture e linee di comunicazione. Un progetto quasi colonialista che il governo etiope ha accolto come una grande opportunità per il Paese, ma che non convince la popolazione locale. cina-etiopia-fast-fashion-4 Ricordiamo quando, durante le Olimpiadi di Rio 2016, il maratoneta Feyisa Lilesa, giunto al traguardò, alzò le braccia al cielo mimando il gesto antigovernativo “X” con le braccia. Lilesa appartiene infatti al più grande gruppo etnico etiope, gli Oromo, che sin dal 2015 ha messo in atto una serie di proteste contro l’espropriazione forzata dei terreni agricoli ai contadini per la costruzione di fabbriche. Proteste che, con molta probabilità, potrebbero sfociare prima o poi in una vera e propria guerra civile. L’outsourcing cinese verso i cosiddetti Paesi in via di sviluppo permette all’Occidente, in sintesi, di scaricare le responsabilità di eventuali danni ambientali o problemi di condizioni di lavoro a limite della precarietà, in nome della convenienza. Una storia vecchia quasi come la rivoluzione industriale ma che, per le grandi aziende, ancora sembra essere la chiave verso il successo produttivo. Come incastrata in un loop di nonnismo reiterato, la Cina emula il lato peggiore dell’Occidente: quello imperialista, quello già denunciato da Gramsci nei suoi Quaderni del Carcere e che il teorico letterario Edward Said definiva nelle sue opere “la pratica, la teoria e gli atteggiamenti di un centro metropolitano dominante che governa un territorio lontano”. Ma la teoria di Said si basava su concetti reificati di “alterità” territoriale, che che metteva nello stesso calderone Islam, Oriente e Africa, ossia  le entità geopolitiche che hanno assicurato il più vasto consenso alla missione civilizzatrice dell’uomo bianco nella storia. Probabilmente, fosse ancora vivo, Said troverebbe grosse difficoltà a ricollocare il suo “Oriente” tra gli sfruttati o tra gli sfruttatori.