Blue Whale: fra falsi d’autore, pericoli reali e diffusione di contenuti
Un'analisi per capirci di più rispetto ad una delle notizie più inquietanti riguardanti i social media: la Blue Whale Challenge. Tutto riconduce a una domanda: dove finiscono i contenuti?
22 Maggio 2017
Grazie al servizio delle Iene del 14 maggio scorso, si è scatenato anche in Italia il dibattito sulla Blue Whale, il terribile gioco che sembrerebbe indurre giovani adolescenti deboli e depressi al suicidio. In tanti stanno alimentando conversazioni che invocano uno “stop”, anche se di vera e propria emergenza non si dovrebbe parlare, considerando che casi conclamati, almeno nel nostro Paese, sembrerebbe non ce ne siano stati.
In molti si sono affrettati a dire che la Blue Whale Challenge fosse in realtà una leggenda metropolitana. L’ormai nota inchiesta esclusiva del periodico russo Novaya Gazeta, la prima a parlare apertamente di una sorta di catena di Sant’Antonio che conduce, dopo un inesorabile lavaggio del cervello, al suicidio, è stata messa in discussione più volte. Eppure, i dubbi rimangono, visto anche la delicatezza del tema.
Quanto c’è di vero? E quanto invece è stato inventato di sana pianta? Proviamo a rispondere cercando di isolare qualche insegnamento utile a comprendere le meccaniche che sui social media possono svilupparsi.
Le origini
È difficile determinare quando sia effettivamente nato il termine Blue Whale, e quando sia stato associato alla prima volta al “gioco”. Ciò che possiamo determinare, è che le conversazioni online non sono state molto nutrite, almeno fino a qualche mese fa.
Se ci spostiamo dall’alfabeto occidentale per andare sul cirillico, il confronto si fa interessante. L’hashtag in russo per indicare BlueWhale sembra essere #Морекитов e sembra seguire un altro percorso, diverso rispetto a quelli citati nella prima immagine.
Come si può osservare, le conversazioni pubbliche messe a confronto portano ad evidenziare come anche nei paesi madrelingua russa già nel febbraio 2017 vi sia stato un incremento del buzz attorno ad hashtag riconducibili al fenomeno (seppur in misura decisamente minore). Tranne quel 10 ottobre 2016, dove si registra un picco.
Cosa succede quel giorno?
Viene pubblicato su un anonimo canale YouTube, GapZter, questo video:
Il brano in sottofondo è di un dj russo, Ganju: il filmato non è altro che il videoclip di un brano dedicato a Rina Palenkova, la teenager suicida il 27 novembre 2015 e considerata da molti come “il modello di riferimento” per quelli che dovrebbero essere i partecipanti al Blue Whale Game.
Gli hashtag che accompagnano il videoclip sono #f53 #f57 #f58 #d28 #морекитов #тихийдом #хочувигру #млечныйпуть #явигре. In particolare quelli con i numeri sono facilmente riconducibili – sempre secondo la leggenda metropolitana, o presunta tale – all’inizio della sfida. Possiamo quindi affermare che in Russia i primi risultati “certi” possono essere certificati quindi alla seconda metà del 2016, anche se già nella prima metà dell’anno si comincia a parlare anche in Occidente di un preoccupante aumento del numero di suicidi fra gli adolescenti, probabilmente in virtù di una sorta di catena di Sant’Antonio collegata a gruppi nei social network dedicati al suicidio. Ad esempio, questo è un video condiviso il 22 maggio 2016, che riprende il servizio di una TV inglese: Negli stessi giorni, anche i media russi ripropongono la notizia. Facendo una ricerca su YouTube, i materiali dalla Russia sono veramente moltissimi: è possibile ritrovare anche video di suicidi e salvataggi all’ultimo minuto (questi ve li risparmiamo), lasciandosi guidare dai suggerimenti della piattaforma. In ogni caso, le date possono essere riconducibili tutte allo stesso periodo. Secondo il servizio delle Iene, l’altro Paese in cui la Blue Whale ha visto i suoi primi, nefasti effetti è stato il Brasile. Anche in questo caso, possiamocertificare come ben prima dell’hype registrato dalle conversazioni online negli ultimi mesi, fosse noto un probabile meccanismo dannoso per i ragazzi. In verità, pur cercando nelle pieghe del web, almeno fra i post ancora visibili non siamo riusciti a identificare riferimenti così remoti, come appunto visto in Russia. È però un fatto che già lo scorso anno si cominciasse, sottovoce, a parlare di “Balena blu” anche in portoghese. I primi post di sensibilizzazione sono invece certificati a quest’anno, quasi a sottolineare come il problema fosse concreto e fosse necessario dotarsi di strumenti utili ad affrontarlo.
E in Italia? A dirci la propria esperienza è Lucilla, un’adolescente che abbiamo sentito per l’occasione: “Ne ho sentito parlare per la prima volta più o meno a inizio marzo. YouTube mi ha mandato una notifica riguardante il video di una ragazza [una YouTuber ndr] che avevo già visto alcune volte, il titolo mi ha incuriosito perché pensavo fosse una nuova challenge (queste tipologie di video sono le mie preferite perché mi divertono molto) e cosí ho guardato il video, la ragazza ovviamente ne parlava in modo negativo. All’inizio ho pensato non fosse vero benchè avessi visto qualche # circolare su Instagram però non ne ho dato molta importanza ma quando circa due mesi dopo i miei genitori mi hanno chiesto se conoscevo questo gioco ho cominciato ad informarmi meglio e a capire che non si trattava di uno scherzo e cosí ho guardato altri video e alcuni servizi per informarmi.” Quindi, in un sottobosco di informazioni meno ufficiali, è già un paio di mesi che quest’informazione circola sui social media, anche in Italia. Rimane il dubbio di quanto sia credibile la possibilità che siano realmente riflessi di una diffusione ben pianificata, a opera di un’organizzazione come palesato dall’ormai arcinoto servizio delle Iene. In questo la risposta di Lucilla è abbastanza rincuorante: “Personalmente non mi sono mai imbattuta in veri e propri gruppi [dedicati al suicidio ndr] ma mi sono imbattuta in tanti # di persone che volevano loro stessi essere “reclutati”.” La notizia insomma, come tutti i trend del web, è montata dal basso, e senza diventare mainstream ha cominciato a diffondersi in maniera capillare fra i giovani internauti, attratti e spaventati da un’aura di mistero e dall’indiscutibile fascino horror che il tutto portava con sè. Tutto questo parlare potrebbe sì portare un effetto negativo: l’emulazione. In molti cominciano a chiedere di giocare, magari attratti dalla suddetta aura di mistero ma non consapevoli delle reali conseguenze: la contaminazione ha portato in moltissimi social network di molti Paesi diversi post di questo genere:
Come vedremo, forse, paradossalmente non un male. Ma continuiamo nella nostra analisi.
Fra percezione e realtà, rimane una domanda: e i contenuti?
Lo scenario rimane abbastanza nebuloso. Per ora l’unica cosa certa è che la stampa – soprattutto italiana – non è riuscita a riportare correttamente le notizie riguardanti questa storia. Certamente, un fondo di verità dovrebbe esserci, considerando che anche Anonymous ha fatto un annuncio per dare la propria lettura sulla diffusione della Blue Whale Challenge.
A marzo, per di più, gli stessi hacker annunciano di aver intercettato alcuni dei curatori.
Detto questo, alcuni dubbi rimangono.
Philipp Budeikin, invece, è una certezza. Finora considerato il presunto ideatore della Blue Whale Challenge, non è stato arrestato come erroneamente riportato da alcuni organi di stampa pochi giorni fa, bensì già nel novembre 2016 (anche se, ad esempio, la BBC – citata da IlPost.it – parla di qualche giorno fa, così come altri organi di stampa riportano la notizia che l’arresto sia avvenuto lo scorso febbraio), ed è quest’informazione che lascia interdetti: se la meccanica era già nota nello scorso novembre, come mai non è stato possibile identificare un trend montante nelle conversazioni online che rimandassero a questo fenomeno? Anche dalla semplice analisi che vi abbiamo proposto, emerge quanto nell’arco di un anno solare non vi siano incrementi rilevanti rispetto alle conversazioni, e anzi, per interi periodi non vi siano cenni rispetto alle keywords utili a entrare nel gioco.
Delle due, l’una: o il gioco è effettivamente una montatura, frutto di una leggenda metropolitana che ha ricevuto un inaspettato boost da un’irripetibile successione d’eventi (filmati di suicidi circolati online, l’arresto di un soggetto psicolabile che ha effettivamente avuto un ruolo nel suicidio di alcuni soggetti deboli amministrando un gruppo dedicato online, un hashtag nato per caso) oppure un fondo di verità c’è, ma non è da ricercarsi in un fenomeno di massa come quello che descrivono i media.
“Qui in Italia si è cominciato a parlare di questo gioco quando un ragazzo livornese si è suicidato buttandosi da un palazzo. Quando hanno pensato che questo suo gesto potesse essere collegato alla challenge allora la voce si è diffusa, e adesso la maggior parte delle persone conosce la Blue Whale. Penso che in Italia non ce ne si è accorti prima perché i giornali, la televisione e gli adulti in generale non parlano di questi fatti finchè non succede qualcosa di grave sul nostro territorio.” Lucilla, l’adolescente con cui abbiamo avuto un colloquio, non sembra mettere in dubbio l’esistenza del fenomeno: semmai, discute la capacità dei media (e degli “adulti”) di rilevare una tendenza – preoccupante o meno, non importa.
Partiamo dal presupposto, anzi, facciamo finta che la Blue Whale esista sul serio: come dovrebbe essersi sviluppata, considerando le evidenze sopra esposte e sottolineando come la partecipazione stessa non doveva essere materialmente dichiarata al mondo?
Fra le tante ricostruzioni che sono state lette, uno dei punti comuni sembra essere che i primi “partecipanti” siano stati “reclutati” in gruppi chiusi su VK: spazi quindi altamente targetizzati, che lavorano su profili di persona decisamente verticali. Microbacini su cui concentrare un eventuale sforzo dissuasorio, se effettivamente alla base vi fosse un obiettivo preciso.
Quando l’argomento tocca la massa, sembra esserci un’inversione di tendenza. Ad esempio, facendo una ricerca su Reddit è possibile trovare thread di discussione molto articolati, in cui gli utenti scambiano informazioni sulla cosa, ma non – apparentemente – per provare a partecipare, quanto, semplicemente, per scoprirne di più, quasi fosse un altro lo scopo del gioco: trovare la fonte di tutto.La viralizzazione della Blue Whale Challenge, insomma, a un’analisi più approfondita non sembra esser un vantaggio per gli organizzatori presunti, perché mostrandone tutti i lati più perversi, il rilascio di contenuti vagamente riconducibili al terribile gioco (annunci, foto, semplice impiego degli hashtag collegati) scatena una serie di interventi esterni, frutto della ramificazione sociale dell’utente, che ne potrebbero rallentare l’effettiva partecipazione.
In altri termini: se un aspirante adolescente suicida volesse partecipare alla Blue Whale Challenge, e lo scrivesse su Instagram, oggi scatenerebbe una ridda di commenti a sfavore del gesto (com’è giusto che sia), che lo potrebbero costringere a desistere.La viralità non sarebbe un supporto per gli organizzatori: semmai, un problema.
Detto questo, allora, perché creare un’attività di questo genere?
Partendo sempre dal presupposto che le regole siano vere (sempre attraverso una ricerca su Reddit, i cinquanta punti riportati anche da IlGiornale.it negli scorsi giorni sono reperibili su diversi thread, anche in lingue diverse) spicca la sempre crescente richiesta di produzione di contenuti, collegata a una generica serie di attività volte a far perdere al malcapitato coscienza della propria situazione.
Sono proprio quei contenuti l’oggetto del contendere: sono infatti moltissime le risorse di contenuto più disparate, ad esempio, che circolano nel deep web. La domanda quindi è: la Blue Whale – sempre che esista nella meccanica cui siamo venuti massivamente a conoscenza – potrebbe essere una trappola per indurre soggetti deboli a produrre contenuti per il piacere perverso di terzi? Il suicidio, in questo caso, non sarebbe che una modalità per evitare ai soggetti coinvolti di dover spiegare non solo il perché, ma soprattutto il chi avesse richiesto quelle foto e quei video, e perché.
Una teoria strampalata, forse: o forse no. D’altronde, sono stati tantissimi i casi in cui catene di Sant’Antonio apparentemente innocue si sono rivelate essere raffinate tattiche per guadagnare contenuti altrimenti difficili da ottenere (ricordate la sfida alle mamme del 2016?). La Blue Whale potrebbe essere stata frutto di un meccanismo nato dal desiderio malato di qualcuno, per ottenere materiale video e fotografico altrimenti altamente difficile d’ottenere (e, sul mercato della perversione che si può nascondere nel sottobosco della Rete, fonte di alti guadagni). Non sarebbe la prima volta, visto ad esempio le inchieste su filmati e fotografie estreme nati con gli scopi più disgustosi, come raccontato anche da Vice.com, e che impegnano ancora oggi gli inquirenti di tutto il mondo nel cercare di arrestare i responsabili della realizzazione e diffusione.
I social network, insomma, sarebbero un canale utilizzato sì per catturare vittime inconsapevoli, ma non nelle modalità massive di cui in questi giorni si è discusso: paradossalmente, se c’era un modo per demolire il meccanismo perfido e meschino della Balena Blue, quello era proprio permettere che diventasse un trending topic facendo partire dal basso anche la spinta “positiva” per sensibilizzare il segmento di pubblico più indicato.
L’importante è che se ne parli: l’opera di sensibilizzazione riuscirà, oltre che a far desistere i presunti organizzatori nel continuare a mettere in pratica il loro folle piano, anche probabilmente ad attirare l’attenzione su molte situazioni di disagio, a forte rischio emulazione. Ripetiamo: questa è una teoria. Ma non ci stupirebbe che, per l’ennesima volta, i “cattivi” avessero scelto di sfruttare un’ampia dose di creatività per fare del male, al semplice scopo di guadagnarci qualcosa.
Rimane un interrogativo: cosa possono fare i grandi network social per non diventare luogo in cui – anche marginalmente – si sviluppino fenomeni come quello descritto? E cosa possiamo fare noi utenti dei social?
Certamente, combattere l’inciviltà imperante che si respira su Facebook & co. è solo un primo passo. Il secondo è però prendere coscienza che ogni network sociale è un mondo in cui ognuno recita un ruolo: quale, dipende da ognuno di noi. E se dei responsabili effettivamente esistono, allora la ricetta per fermarli è una e una sola: parafrasando Giovanni Falcone, follow the content. Basterà risalire alla distribuzione di ogni materiale inviato e ricevuto per ricostruire la presunta rete criminale che si nasconde dietro la Blue Whale Challenge, ma soprattutto individuarne gli scopi.
Nella prossima puntata dell’inchiesta, sentiremo uno psicologo delle nuove tecnologie, specializzato in cyberbullismo, che ci spiegherà quali sono i meccanismi che scatenano interesse in fenomeni come la Blue Whale: un modo in più per capire al meglio gli effetti a lungo periodo dei social media sul pubblico più giovane e sensibile.
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