Alla sede di Facebook a Palo Alto, in California, c'è un grande wall, una sorta di bacheca (reale, non virtuale!) dove dipendenti e ospiti possono scrivere liberamente il proprio pensiero. Forse non molti si ricordano che qualche mese fa alcuni impiegati vennero pubblicamente accusati di aver barrato la parola “black” nella frase "Black Lives Matter" " (“Le vite dei neri contano") sostituendola con “All”: "All Lives Matter" (“Tutte le vite contano"). L’indignazione di Zuckerberg non si fece attendere, difendendo quel motto, il fondatore del più importante social media al mondo, non si schierava soltanto dalla parte dei diritti dei neri ma, di fatto, difendeva una creatura nata e cresciuta tra le bacheche di casa propria. Ma cosa sarebbe successo se quest'episodio fosse accaduto adesso, dopo i tragici fatti di Dallas?
#BlackLivesMatter: il movimento di protesta nato sui social
Quello che oggi viene definito, nel sito ufficiale, "Un movimento non un momento" vide la luce in seguito sull’onda lunga delle polemiche legate all'assoluzione di George Zimmerman, la guardia che sparò al 17enne Trayvon Martin. Correva l'anno 2013 e una scrittrice e attivista della California, di nome Alicia Garza scrisse su Facebook un celebre post: "Black people. I love you. I love us. Our lives matter, Black Lives Matter".
L’immediatezza e la semplicità della riflessione di Alicia, ben si adattava a diventare uno slogan: l’hashtag #BlackLivesMatter iniziò a diffondersi a macchia d’olio. A differenza degli anni '60 - dove servivano leader, strutture e organizzazione per veicolare la protesta - nell'epoca dei social meda la narrazione diventava orizzontale, la fruizione immediata, il nemico chiaro: la polizia, spesso colpevole protagonista di violenze gratuite sugli afroamericani.
I numeri dell'emergenza, rivelati di recente dal Washington Post, mostrano la portata del fenomeno: quasi mille persone sono state uccise dalla polizia americana nel solo 2015, di cui 494 bianchi, 258 neri e 172 latinos. L'hashtag #BlackLivesMatter torna in tendenza sui social media ogni qual volta accade un nuovo fatto di sangue. Tra gli hashtag che si sono contrapposti a BLM prima della sparatoria di Dallas spicca quello in supporto delle forze dell'ordine: #BlueLivesMatter. Il più grande rivale sui social media resta tuttavia #AllLivesMatter.
La foto simbolo di Dallas e la protesta nelle serie TV
L'immagine simbolo della protesta, diventata subito virale nei social media di tutto il mondo, è stata scattata a Dallas dal fotografo della Reuters Jonathan Bachman e ritrae una ragazza di colore, che rimane immobile davanti alla polizia con il suo vestito estivo al vento.
Baton Rouge was the first protest of @Reuters photographer Jonathan Bachman's career: https://t.co/z15Ob5YI2Q pic.twitter.com/vLM1SqYZ8f
— Reuters U.S. News (@ReutersUS) 12 luglio 2016
La narrazione della "issue" della protesta nera è diventata così popolare da arrivare perfino a coinvolgere una delle serie TV più acclamate: nella puntata 4x14 di "Scandal" il tema è proprio quello dell'uccisione di un nero da parte di un poliziotto bianco.
Le simpatie estremiste di Micah Xavier Johnson sui social
Nell'era Obama, primo presidente afroamericano della storia, lo scontro razziale sembra tornato di drammatica attualità. Il presidente americano in queste ore è in Texas per rendere omaggio alle vittime della sparatoria ed incontrare le loro famiglie. L’assassino di Dallas, il 25enne veterano Micah Xavier Johnson, che ha ucciso a sangue freddo cinque poliziotti, non nascondeva le simpatie per alcuni movimenti estremisti. Tra i “like” di Johnson su Facebook, oltre a BLM si annoverava anche l'“African American Defense League” che, in tempi non sospetti, ha incoraggiato i propri follower così: “Attack everything in blue except the mail man”.
Un altro movimento, il "New Black Panther Party", ha recentemente dichiarato l'intenzione di portare armi alle manifestazioni programmate durante la visita di Obama a Dallas come durante la convention repubblicana di Cleveland.
Sfoggio di armi e toni minacciosi contraddistinguono invece il "Black Riders Liberation Party" che su Facebook pubblica foto di miliziani con fucili automatici che studiano una mappa. Un video rap rilasciato su youtube il 26 giugno scorso, lascia poco spazio a dubbi circa le intenzioni, non propriamente pacifiche, del gruppo.
La battaglia per i diritti necessita di un clima diverso in America, a cui tutti devono contribuire: polizia, istituzioni e movimenti. Lo ha riassunto bene l'ex presidente George Bush, intervenuto ai funerali dei cinque poliziotti assassinati, che nel suo discorso ha sottolineato la necessità di evitare ogni forma di manicheismo: «Troppo spesso giudichiamo gli altri gruppi dai loro peggiori esempi, mentre giudichiamo noi stessi dalle nostre migliori intenzioni».
Riusciranno questi movimenti a tenere a bada le frange più estreme? L'America è realmente divisa tra opposti estremismi? Come reagiscono i numerosi movimenti pacifisti che alle azioni bellicosi preferiscono la non violenza? E cosa bolle in pentola nell'America del "White Power"?
Ne parleremo nella seconda parte di questo viaggio nell'America del dopo Dallas.