Che un'immagine vale più di mille parole è un detto sentito e risentito, in molti potranno confermarlo e altri potrebbero smentirlo, ma quello che più interessa è capire quale ruolo, quale spazio e quale incombenza ha un'immagine, o più di una, in una strategia di corporate storytelling.
Per chiarirsi le idee sull'aspetto visual della narrazione d'impresa abbiamo rivolto qualche domanda a Daniele Orzati, storytelling designer e docente Ninja Academy del Corso Online in Corporate Storytelling + Storytelling LAB.
Uno storytelling che funziona dovrebbe conquistare testa e cuore della sua audience. Su quali leve bisogna puntare per stimolare due aree così distanti?
Partiamo dal cuore. Per farlo battere, il racconto deve assecondarne le fasi: fase di sistole, contrazione, e fase di diastole, rilassamento. Che in termini narrativi vuol dire questo: ad ogni protagonista servono avversità (contrazioni) per superarsi e conquistare tesori (rilassamenti). Saliscendi indispensabili per tenerci legati al racconto. "A wonderful summer on a solitary beach" (cit. Battiato): benissimo dopo un anno di sfide, ma poi, se il ciclo non ricomincia, si finisce morti annoiati.
Passiamo alla testa. Il sangue lo prende dal cuore, come tutti sappiamo. Se ne prende la giusta dose funziona meglio, altrimenti sono guai. La narrazione, nella giusta dose, può essere un ottimo cardioregolatore, ed è infatti un noto viatico per l'apprendimento e la memorizzazione. Ma la narrazione ha anche il potere di lasciarci inermi, così come di farci scoppiare la testa. In questi casi, tra gli effetti, può esserci il consumo, che a dire il vero è uno degli effetti più innocui. Sugli effetti tragici... be', lascio a voi ogni riflessione.
Fuor da metafora, e andando dritti al dunque, la grandi leve su cui molti puntano sono le paure universali, e nello specifico: abbandono e morte. Non sono io a dirlo, sono i grandi casi della narrazione di brand, se analizzati a fondo, a insegnarcelo. L'etica non c'entra e non c'entra il politicamente corretto. C'entra invece l'uomo. Chi condanna la narrazione condanna l'uomo: non possiamo fare a meno di storie, perché esse sono lo specchio strutturale del nostro pensiero cosciente. Non proseguo perché non vorrei, appunto, spaventare.
Una buona narrazione d’impresa che effetti ha sul consumatore e sulle sue pratiche di consumo?
La narrazione ha effetti sull'individuo in sé, sulla costruzione della propria identità; e siccome oggi una delle modalità di espressione della propria identità passa attraverso il consumo, possiamo dire che sì, la narrazione ha effetti sulle pratiche di consumo, soprattutto di tipo identitario. Di solito sintetizziamo così: la narrazione efficace ci rimane addosso, ci trasforma e ci spinge ad agire.
Come scegliere le immagini perfette per raccontare un brand?
Partendo dall'immaginario. E l'immaginario perfetto nasce col design stesso della narrazione. Come ho detto altrove, quello del visual storytelling è un problema innanzitutto di storytelling: prima dell'applicazione bisogna pensare alla sistematizzazione della narrazione. Dall'immaginario alle immagini è (quasi) solo questione di mettere nero su bianco delle linee guida per orientare chi le immagini le produrrà o le selezionerà per i diversi media.
Questo per ciò che concerne la grammatica. Poi c'è la sintassi, cioè l'ordine, la disposizione, il nesso causale tra un'immagine e l'altra. E anche in questo caso il problema è innanzitutto narrativo, e cioè: si risolve prima in termini di progettazione testuale, poi visual. Riassumendo: prima pensiamo alla progettazione, poi all'esecuzione.
Un’azienda decide di sperimentare il visual storytelling. Quali sono i primi passi da compiere?
Andiamo un po' più nello specifico. Proporrei innanzitutto una fase di analisi: da un lato, delle forme di narrazione visual già attivate (più o meno consapevolmente) dal brand, dall'altro di quelle dei competitori. Questo per capire cosa c'è nell'immaginario dei nostri pubblici, ma anche per capire se esiste già un'iconologia di marca e di contesto riconosciute. Poi passerei alla definizione di un immaginario, sia in termini strutturali che stilistici, e di un set di immagini di base. Infine, passerei alle declinazioni sui diversi ambienti dell'ecosistema media.
Concludo con una precisazione necessaria: un'azienda non può permettersi di omettere il visual, se non governa l'immaginario qualcun altro lo farà al posto suo. Se è vero che l'apparenza non è tutto, è altrettanto vero che non si può non apparire, quindi è fondamentale riconciliare l'apparenza con l'essenza.
Qual è il tuo progetto di visual storytelling preferito?
Devo ammettere di non avere una specifica preferenza. Uno dei casi più semplici, efficaci e fortunati rimane Humans of New York: il mosaico narrativo è composto da tessere che rispecchiano i lettori stessi. Risultato: grande riconoscimento, riusabilità e versatilità.
Altro progetto divertente e foriero di spunti è The Burning House, che con una semplice domanda, If your house were on fire, what would you take?, ha collezionato risposte fotografiche davvero interessanti in termini narrativi (ogni lista ricompone il senso di una vita).
Mi piace poi molto la scelta visual, in termini di worldbuilding, della campagna Dumb ways to die — scelta efficace e tutt'altro che scontata. Citerei anche l'utilizzo del tool Exposure, che trovo semplicemente perfetto, da parte di charity: water. Potrei fare molti altri esempi, ma rischierei di confondere. Citerei ancora un caso interessante e "di genere" nel quale mi sono imbattuto in questi giorni: il progetto grafico Uncover the Truth del designer nicaraguense Fabio Pantoja, contronarrazione in piena regola della Coca Cola.
Infine, per chi come me è sensibile al mito delle origini, e alla fase cardiaca di contrazione, mi arrischio a suggerire un salto nel passato di 500 anni, dove si trovano i nobili progenitori del connubio tra immagini e parole: l'Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna e l'Emblematur liber di Andrea Alciato. Buona visione!