[Sull'autore: Claudio Partesotti, partner dello studio legale ICT Legal Consulting, è avvocato del Foro di Milano specializzato in diritto della proprietà intellettuale, diritto dei media e delle nuove tecnologie]
Lo scorso 23 dicembre anche il Senato ha approvato la c.d. Web Tax, che nelle ultime settimane è stata oggetto di un intenso dibattito - a livello politico, non solo nazionale, e di opinione pubblica - all'interno del più ampio percorso di approvazione della legge di stabilità (la legge che, insieme alla legge di bilancio, definisce la manovra di finanza pubblica per il triennio successivo e mira ad attuare gli obiettivi programmatici di finanza pubblica).
Cerchiamo di capire meglio il contenuto della web tax, lo scenario fiscale nel quale si innesta, le finalità che si propone di perseguire e le ragioni delle aspre contestazioni che ha sollevato.
Lo scenario dei servizi online e la proposta di legge inizialmente presentata
La proposta di legge sulla c.d. web tax, nella versione inizialmente presentata il 4 ottobre scorso a nome dell'On. Boccia, si proponeva esplicitamente di assoggettare a IVA in Italia i profitti di società estere, derivanti dalla fornitura di servizi di commercio elettronico sul territorio italiano a soggetti passivi (ovvero diversi dai consumatori).
Per raggiungere tale finalità, la proposta Boccia prevedeva originariamente:
(i) l'obbligo dei committenti di servizi on line e di spazi pubblicitari di link sponsorizzati di acquistare soltanto da soggetti in possesso di partita IVA italiana (con ciò imponendo a questi fornitori di servizi - es. editori, concessionarie di pubblicità, motori di ricerca – o di acquisire la partita Iva italiana, ovvero di rinunciare a fornire tali servizi);
nonché (ii) l'adozione di sistemi di tracciabilità dei sistemi di pagamento virtuali, in modo da individuare univocamente le parti della transazione e rendere manifesta la partita IVA del beneficiario del pagamento.
Le aspettative sull'effettivo gettito che sarebbe stato generato dalla web tax, qualora approvata nella sua configurazione iniziale, erano state molto difformi tra loro (da poche decine di milioni di euro sino ad un'improbabile stima di circa un miliardo di euro).
Le critiche alla proposta iniziale e il frettoloso “ridimensionamento” del 18 dicembre: l'applicazione ai soli servizi di pubblicità online
La proposta Boccia ha immediatamente sollevato numerose critiche, da una prospettiva sia economica (il freno allo sviluppo di un’economia digitale in Italia, pari a circa il 3,1% del PIL), sia giuridica (il rischio di dare luogo ad una procedura di infrazione da parte della Commissione Europea per incompatibilità con le normative europee, su tutte il principio del mercato unico e della libera circolazione dei beni e servizi), evidenziando altresì i conseguenti rischi di un buco di bilancio derivante dalle minori entrate conseguenti alla sopravvenuta illegittimità della normativa.
Lo scorso 18 dicembre - anche sulla scorta di tali critiche la commissione Bilancio della Camera aveva quindi modificato in parte gli emendamenti della legge di stabilità relativi alla web tax, eliminando l’obbligo di partita iva italiana per le società straniere che operano nel settore del commercio elettronico (un esempio per tutte, Amazon). Tale obbligo permane, invece, per le società straniere che vendono pubblicità online in Italia (e qui viene spontaneo pensare, per antonomasia, a Google); così come rimane la disciplina sulla tracciabilità degli acquisti di sponsorizzazione digitale e di servizi collegati, che potranno essere effettuati soltanto mediante bonifico bancario o postale.
I commenti critici dell’Unione Europea e le prospettive di riforma
La ridefinizione del perimetro di applicazione della web tax non ha attenuato le perplessità sulla compatibilità della disciplina con la normativa europea, come ha evidenziato recentemente anche il portavoce del commissario fiscale dell’Unione Europea Šemeta, il quale ha espresso “seri dubbi sull’emendamento” e sulla sua compatibilità con “le libertà fondamentali e i principi di non discriminazione stabiliti dai Trattati”.
Non sono mancati poi quanti hanno evidenziato che l’impatto della web tax non riguarderebbe soltanto i colossi del web, ma anche le tantissime piccole imprese che sarebbero seriamente colpite dal provvedimento.
Dall'altro lato vanno ricordati quanti apprezzano la web tax quale iniziativa che consentirebbe agli operatori italiani dell’advertising online di beneficiare di una parità di trattamento fiscale nei confronti delle imprese straniere che realizzano utili in Italia ma pagano le tasse in paesi aventi un trattamento fiscale più vantaggioso (per una sintesi della veemenza del dibattito, si veda ad esempio qui).
Il percorso ondivago della web tax evidenzia la necessità di una definizione normativa uniforme a livello europeo. Questo è stato, ad esempio, il percorso scelto dalla Francia, ove si è preferito rinunciare ad una normativa locale in attesa di una soluzione uniforme europea. L’attenzione delle istituzioni europee ai temi della fiscalità nell'economia digitale è d’altro canto crescente, come dimostra anche la nomina del gruppo di esperti appositamente nominati dalla Commissione Europea lo scorso 22 ottobre (la prima riunione si è tenuta il 12 dicembre e la prossima si terrà il 14-15 gennaio).
Una diversa possibile interpretazione delle ragioni alla base della web tax
E’ interessante notare come la proposta Boccia sia stata letta da alcuni osservatori come un tentativo (affatto ingenuo, a dispetto della manifesta contrarietà ai principi dei Trattati europei) di andare oltre il semplice assoggettamento ad IVA di alcuni servizi erogati in Italia da società straniere.
Secondo alcuni esperti, la vera ragione dell’introduzione della web tax andrebbe piuttosto desunta dalla lettura congiunta della proposta Boccia con altri emendamenti alla legge di stabilità (rispettivamente gli emendamenti 1642, 1643 e 1660), per effetto dei quali il possedere una partita IVA in Italia diventerebbe un criterio sufficiente per stabilire che un operatore estero dispone di una stabile organizzazione nel nostro paese e, in quanto tale, è soggetto alle imposte sui redditi in Italia.
[Claudio Partesotti è spesso relatore in seminari, convegni e corsi universitari e di aggiornamento professionale, con particolare riguardo ai temi della gestione e protezione dei diritti di proprietà intellettuale, dell'e-commerce, e dei contratti di tecnologia. Ha svolto attività di docenza presso l'Istituto Universitario di Lingue Moderne (IULM) di Milano ed è autore di pubblicazioni in materia di proprietà intellettuale e information technology]