Ricordo i professori universitari ridicolizzare gli studenti ogni qualvolta rispondevano "il manager!" alla domanda Cosa vuoi fare dopo la laurea? Posso solo immaginare, in maniera dolceamara, che lo stesso avvenga oggi quando rispondono "lo startupper".
C'è qualcosa che mi affascina nell'esplosione del fenomeno startup in Italia. E mi diverte quando si trasforma in moda: lo startupper ha il suo lessico, le sue cerchie, i suoi strumenti, i suoi format-eventi. Startup = meme. E questa componente modaiola la intravedi inevitabilmente in tante idee deboli, stiracchiate e tese come un arco di Ulisse davanti ai Proci.
La vedi nell'ossessionata ricerca di visibilità, nella lotta per il premio iper-locale o nazionale che sia, nell'hashbragging, nei business model egocentrici, nella bella ignoranza di qualsiasi exit strategy, nel meraviglioso Maserati problem, nel piegarsi alle volontà del primo investitore che capita e immaginarlo al centro di una religione monoteistica. Il tutto mentre si promuove la propria piattaforma, che è chiaramente in grado di superare Facebook, abolire le email, diventare virale, cambiare il commercio online ed offline - mi puoi firmare un NDA? (Startupper, ringraziate Ottavio per questo video.)
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Insomma, è evidente che molte startup sono fini a sé stesse. Ma sotto questo strato per fortuna solo superficiale, c'è un cambiamento. Ed è questo quello che mi affascina, al di là delle cristallizzazioni stereotipate: è il modo in cui le startup provano ad invertire la sfera mainstream e la sfera underground nel mercato del lavoro (a tal punto che questa feticizzazione autoreferenziale della disruption potrebbe rischiare un giorno di istituzionalizzarsi al pari dello status quo contro cui in primis lotta oggi lo startupper).
La vera disruption non è contenuta solo nelle migliaia di intuizioni geniali che si annidano nelle startup italiane e mondiali. E' piuttosto nell'annullamento del concetto di fedeltà alla propria azienda. Il posto fisso, la lunga carriera interna, chiamiamola come vogliamo. Non c'è più il desiderio di una linea retta disegnata dal datore di lavoro nelle nostre vite, perché adesso la fedeltà vogliamo giurarla solo a noi stessi, alla nostra abilità a disegnare percorsi per noi - e per i nostri compagni di viaggio. Il percorso più breve e bello per arrivare all'orizzonte non è per forza quello che abbiamo fino ad oggi intravisto in semplice linea d'aria.
"Cambiamo tutto", scrive Riccardo Luna. Mi chiedo quale potrà essere l'impatto sul sistema educativo. Il lavoro non c'è e la laurea non te lo assicura; come spiega Alex Payne, uno dei primi dipendenti di Twitter, "le startup sembrano, specie attraverso la lente d'ingrandimento dei media, l'unico segno di vita in una landa ormai desolata". Se è vero che il lavoro esprime la potenzialità della nostra autorealizzazione attraverso una sistematica soddisfazione del senso di scopo, la startup è la forma organizzativa che per eccellenza ci consente sul lavoro la massima espressione teleologica: perché nasce (o dovrebbe nascere) già gravida della propria exit strategy. E qui mi viene in mente Alex Brunori, il quale un giorno mi spiegò che più dell'inizio delle cose è importante la loro fine. O meglio, il come finiscono.
Lifetime employment vs. lifetime employability
Ieri la metafora visiva più utilizzata per descrivere il lavoro era quella della scala. Ma oggi quale useremo? Guardiamo in parallelo all'evoluzione del concetto di ufficio: dal cubicolo all'open space, ora uno spazio intangibile e temporaneo tra ambiente di co-working e la cloud.
Ieri il patto psicologico tra datore di lavoro e dipendente si fondava sulla stabilità e sulla prevedibilità. Erano solo queste le due direttrici della motivazione nel lavoro. Adesso quello stesso patto psicologico si è spostato sugli assi del mutuo valore e della volatilità. Dammi più valore ed io aumenterò il tuo. Migliorami, trasformarmi, rendimi pronto per la mia prossima ventura - pensa il founder, il developer, il designer, l'investor - ed io migliorerò e trasformerò il tuo business per il meglio.
Adesso il fattore critico di successo è saper massimizzare gli impatti tra diversi network personali. Ed alimentarli a vicenda. E' lo scenario della coopetition, il mio dipendente di oggi potrebbe essere il mio concorrente domani. L'adattabilità all'ambiente iper-cangiante, requisito così importante per l'evoluzione Darwiniana, investe oggi con piena veemenza il mondo del lavoro, in barba alle clausole di non competizione. Se del resto la generazione dei millennial si fonda sulla tensione alla partecipazione alla reason why che anima i brand, questo aspetto si riverbera anche negli employer brand. E qui la cultura startup - gonfia di significato, di anima e di perché - vince sulla cultura corporate.
Sono ovvie le implicazioni in termini di personal branding: "un dipendente che aggiorna il suo profilo su LinkedIn o costruisce un'ampia audience per sé su Twitter sta facendo un favore alla tua azienda, non compiendo un atto di infedeltà", dicono Hoffman, Casnocha e Yeh. HubSpot, una software company del Massachusetts, ha istituito la policy per cui un dipendente può portare a cena chiunque ritenga essere una persona intelligente; sarà spesato dalla compagnia senza neanche bisogno di chiederle l'approvazione.
Perché quindi adesso sembra che tutti vogliano occuparsi di startup? Perché emerge una componente più umana, seppure solo apparentemente più individualistica, della concezione del lavoro. Pretendiamo cioè, a torto o a ragione dipende dall'età anagrafica di chi giudica, che vita e lavoro coincidano. Perché in fondo in ognuno di noi startupper alberga questa segreta profonda ambizione, alimentata dalle parole di Steve Jobs: “Non vedo la mia vita come una carriera: faccio cose. Reagisco alle cose che succedono. Non è una carriera. È una vita!” Ed oggi è più facile che questo oggi si avveri, per molti, e dappertutto.