ATTENZIONE LETTORE: il seguente articolo non indaga su fenomeni musicali virali come dovrebbe, ma è una riflessione sul perché esiste questa rubrica, quindi se non hai voglia di leggerlo non farlo, ma almeno prima mettimi “like” che quando raggiungo quota mille mi danno la cintura gialla dei Ninja, che un po’ come un ausiliare della sosta che diventa vigile dopo 1000 multe.
Eurostar Milano-Roma delle 9:00, che vuol dire che stamattina mi sono svegliato proprio presto.
Passo la prima ora cazzeggiando con Twitter e Vine facendo video a due signore di 500 anni che dormono davanti a me, cerco un caffè ma non lo trovo, le politiche di costo dell’agenzia per cui lavoro si fanno sentire e in seconda classe non c’è neanche il giornale.
Sto tergiversando ad aprire il portatile perché devo mandare delle mail e non ho voglia, leggo qualche pagina di “Guida ragionevole al frastuono più atroce” di Lester Bangs, probabilmente il più famoso critico rock mai vissuto, e lo seguo mentre riesce a dire che i Cream sono un gruppo commerciale costruito a tavolino e i Jethro Tull dei giullari da palco; sono felice che non sia qui per vedere gli Strokes.
Come spesso accade il Wifi del Frecciarossa salta, è noto che non regge più di 3 collegamenti in contemporanea e la nuova chiavetta che mi hanno dato in agenzia è una ferro da stiro e non funziona mai, poco male, le mail dovranno aspettare che io raggiunga l’ufficio romano.
No rete no Spotify, e non ho ancora scaricato i brani in locale sul cellulare nuovo, mi attacco allora a YouTube e, nonostante l’incertezza del 3G, riesco a loggarmi e ad agganciare una mia playlist che parte con Gravel pit del Wu Tang Clan che libera il tamarro che è in me di prima mattina.
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Prendo il quaderno degli appunti che uso per la rubrica di Jack ‘n Roll, magari a questo giro riesco a mandare ad Adele (la responsabile di Ninja Life) un articolo in tempo; poi però, sarà che il treno mi rende sempre riflessivo, ma mi viene da domandarmi perché ci tengo così tanto a questa storia del rapporto tra musica e web, alla quale sto dedicando gran parte del mio (poco) tempo libero da un paio d’anni a questa parte.
Il fatto è che io credo fermamente che la musica sia un laboratorio per la realtà che ci circonda, mi affascinano i cambiamenti e le soluzioni che attraversano la realtà di questo mercato assurdo che non ha pari nel mondo, fatto da creativi che creano se stessi, dove prodotto e marketing sono la stessa cosa, cambiamenti che poi arriveranno anche nel resto del mondo come la risacca di un’onda.
Pensate solo a Napster e ditemi se quel fenomeno non ha anticipato di 10 anni quello che poi è successo in tutto il resto del mercato dell’entertainment e del web in generale.
Per questo scruto YouTube come se stessi sbirciando in tutti i futuri possibili, e seguo le imprese di Guè Pequeno e della sua etichetta con maggiore interesse delle interviste ai grandi manager che escono su YouMark!, perché se il Guercio ha deciso di produrre i Troupe d’Elite non lo ha fatto a caso, nessuno capisce perché (e cavolo neanche io) eppure sono convinto che lui lo sappia benissimo, che comprenda i fan della sua etichetta al punto da anticipare quello che loro stessi vorranno, che sia in grado di fare quello che ogni direttore marketing del mondo sogna di fare: predire il futuro.
Perché io credo che il presente del mercato della musica sia il futuro del resto del mondo.
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Noi digital strategist, planner, esperti di web, quellochevipare, ci inginocchiamo tutte le mattine all’alba davanti al manifesto di Cultrain e ci ripetiamo che questa è l’era dell’ascolto, e poi con la camicia ma senza cravatta andiamo per il mondo a cercare di convincere Brand che non ascoltano nessuno che qualcosa sta cambiando.
Ma alla fin fine spesso quello che facciamo è cercare di spiegare un fenomeno sociale immenso e indefinibile come il web, utilizzando formulette e terminologie manualistiche.
Poi penso a David Bowie, Beck, ai Pink Floid, i Nirvana, gli Who, i Depeche Mode ma anche i Litfiba, i Negrita, i Modena City Rambler e Vasco Rossi, gente in grado di riunire decine di migliaia di persone di uno stadio e farle ridere e commuovere in un unico grande coro di emozioni utilizzando solo il proprio ingegno, il proprio talento e la propria sensibilità.
Niente manuali, segreti o formule magiche.
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Penso che noi esperti della comunicazione stiamo sbagliando mira, che tutta questa necessità di creare gabbie di tecniche che ci aiutino a raggiungere il risultato sia solo l'espressione della paura che il mondo della comunicazione prova dinnanzi all'immensità del web, un fenomeno che ha stravolto tutto e che pochi oggi hanno capito come affrontare, e io cerco le risposte li dove tutto è iniziato, nel primo mercato che è stato affondato dalla rete e che ora sta risorgendo vasto e potente come mai: la musica.
Io ho letto, scritto e recitato centinaia di pagine che spiegano con assoluta certezza quali siano le tecniche corrette per diffondere un video on-line e far funzionare una pagina Facebook (no, non dirò la parola “virale”, quella la dico solo dietro compenso), ma la verità è che la gente guarda quello che ha voglia di vedere, legge quello che ha voglia di leggere, ama, adora, si appassiona, si arrabbia solo quando prova qualcosa di vero, anche se lo prova per qualcosa di “falso” come la storia raccontata in una canzone.
Per questo tengo questa rubrica, non è solo per i 5.000 euri che il Pallera mi sgancia per ogni articolo che scrivo o perché mi piace avere una scusa per non aiutare Chiara a fare il cambio dell’armadio, ma perché sto cercando qualcosa e sono convinto che non lo troverò nel manifesto di Cultrain o nella sezione “comunicazione” delle edizioni Hoepli (che cara grazia che esistono comunque), forse mi sbaglio ma se è così almeno avrò impiegato il mio tempo ascoltando musica.
E se tutto va bene mi sono svangato anche questo articolo senza parlare di Justin Bieber (che però lo scrivo, così indicizza…)
La prossima volta vedrò di scrivere qualcosa di più sensato, ma non prometto niente.
Jack ‘n Roll